Sono passati 7 anni, ma ricordo come fosse ieri quella torrida mattina del 12 luglio 2016. Ero a Milano e avevo appena concluso l’esame di Filosofia della Scienza, un esame dalla logica ferrea che per me, all’epoca regina del no sense, rappresentava ormai un tormento. Da buona fuorisede ho chiamato mia madre per raccontarle di aver superato la prova, inviandole anche la foto del libretto controfirmato via WhatsApp. Eppure lei non era del mio stesso entusiasmo, la sua voce si incrinò, mi raccontò che vicino a casa nostra, sulla tratta Andria-Corato della Ferrovia del Nord Barese due treni, che viaggiavano su un binario unico regolato con l’obsoleto “sistema del blocco telefonico“, si erano scontrati frontalmente ad altissima velocità alle 11:05, in corrispondenza del chilometro 51. Fin dai primi minuti si ebbe contezza di quel disastro, delle decine di vite che si erano spezzate in un attimo su quelle carrozze, persone che non avevano avuto nemmeno il tempo di avere paura della morte.

Allora aprii i social, accesi la tv e dopo ore e ore di bombardamento mediatico in merito a quella strage impensabile, i soccorsi e le autorità confermarono il decesso di 23 passeggeri e il ferimento di altri 51. Ci vollero ore e ore per identificare le vittime, perché i loro parenti smettessero di sperare, ci vollero ore prima che venissero diffusi i loro nomi, i loro impieghi, le loro vite, le loro passioni, i loro sogni, per capire come mai ciascuna di queste persone fosse salita proprio quel giorno sui convogli ET1016, proveniente da Corato, ed ET1021, proveniente da Andria.

Nei giorni seguenti i giornali erano pieni delle loro storie, dei loro volti, quasi a sottolineare quanto il destino sia strano e sorteggi alla cieca l’interruttore da spegnere. Mi colpì un trafiletto del Corriere della Sera che tratteggiava il profilo di Rossella Bruni, una studentessa di Filosofia all’Università di Bari di 22 anni, che si trovava su quel treno perché stava rientrando a casa sua, ad Andria, dopo aver superato l’esame di Informatica. Trasalii. Rossella aveva la mia età, frequentava la mia stessa facoltà e aveva tutta la vita davanti.

Digitai il suo nome online. Rossella mi somigliava intellettualmente in modo sconcertante. Amava scrivere poesie, racconti, cucire insieme le parole e creare tra le righe delle scene oniriche, sempre orientate all’amore per la terra, la natura. Rossella aveva un blog, “Il ritorno di Gea“, dove inseriva i suoi testi e li firmava con il nickname “Maliini Paroliera“. Questa sagace, intelligente e sensibile 22enne si sarebbe dovuta laureare alla triennale nel marzo del 2017, proprio quando mi sarei poi laureata io. Allora decisi di immergermi nella lettura del suo mondo, di quei versi dalla punteggiatura fantasiosa in cui si avvertiva l’anima di una giovane donna che avrebbe dato del filo da torcere ai potenti, pronta a combattere per il pianeta, in tempi in cui la società dormiva sonni tranquilli, ignara dei cambiamenti climatici e dei malanni dovuti agli sprechi.

Rossella era avanti anni luce. Quell’anno stesso riuscii a entrare in contatto con la sua mamma, Antonella Di Molfetta, una donna speciale, che mi raccontò come sua figlia avesse in progetto di produrre agricoltura biologica. “Me la immagino come una scrittrice-contadina, come una lottatrice per i diritti delle donne e dei bambini, un’accanita amazzone dell’ambiente. Della terra. Rossella non sembrava adatta per questo mondo frivolo e banale“.

Sento Antonella anche oggi, nel giorno dell’anniversario della strage, a distanza di poco meno di un mese dalla sentenza da brividi emessa dal Tribunale di Trani nei confronti dei 16 imputati, che ha assolto 14 persone condannandone solo 2, ovvero il capostazione di Andria, Vito Piccareta, a 6 anni e 6 mesi di carcere, e il capotreno del convoglio diretto a Corato, Nicola Lorizzo, a 7 anni. Tutti assolti gli altri accusati, così come l’azienda Ferrotramviaria che gestiva quelle linee, prosciolta anche dall’illecito amministrativo “perché il fatto non sussiste”. “I nostri morti non hanno nemmeno avuto la giustizia terrena – afferma Antonella -. Si difendono solo i potenti perché i soldi sono il motore che fa girare il mondo. Rossella diceva: ‘Maledetto il denaro che serve per forza per vivere’. Lei avrebbe vissuto meglio ai tempi del baratto”.

Poi faccio l’errore imperdonabile di chiederle come possa sentirsi oggi, e lei mi spiega che una madre che ha perso un figlio “non sta”. “È un dolore inconsolabile e inaccettabile che il tempo non lenisce. Vado avanti in qualche modo”. Antonella, tra una frase e l’altra, condivide con me le immagini delle manifestazioni di questa mattina a cui hanno partecipato molte famiglie delle vittime, proprio lungo quel tratto ferroviario. Alterna i filmati della commemorazione alle foto di Rossella; mi mostra un quadruccio bellissimo dove vi sono disegnati i binari e 5 palloncini, tra cui uno giallo che simboleggia sua figlia; si tratta di un’opera d’arte realizzata dai ragazzi del circuito penale di Bari, seguiti dalla psicologa Corsina Depalo, nonché colei a cui fu assegnata la famiglia al momento della scomparsa di Rossella e diventata grande amica di Antonella.

La conversazione tra me e questa madre, che ha sempre più i tratti della mia, delle nostre, va avanti così, tra vette e abissi dell’anima, quegli stessi luoghi sempre pieni della memoria di Rossella. Antonella dice che non riesce a trovare la forza per superare il dolore, mi confida che spesso Dio sembra non voglia aiutarla né ad andare avanti, né a morire, ma solo a soffrire, però un attimo più in là torna a brillare. In un lampo pensa a Francesco, suo figlio di 34 anni fratello maggiore di Rossella, e al suo meraviglioso bambino Andrea, di 2 anni. Guarda con volto compiaciuto le foto del nipotino e in quello sguardo vede la luce della sua ragazza. In quegli occhietti scuri scorge la stessa voglia di vita che infiammava Rossella. Allora Antonella accenna un sorriso. E tanto basta per svegliarsi anche domani.