Il regista spagnolo che è stato ospite al Cineporto di Bari per la rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi #2 curata dal critico cinematografico Luigi Abiusi, si è concesso a una platea gremita rivelando aneddoti e curiosità sui suoi film che, seppur si contano in soli tre lungometraggi in oltre quarant’anni, risultano essere capolavori citati dai registi di tutto il mondo, tra cui ultimi in ordine di tempo Monte Hellman in Road to Nowhere (2010) e Amir Naderi in Cut (2011).

“I miei esordi da giornalista – dice – mi hanno dato la grande opportunità di vedere film proibiti dalla censura negli anni franchisti; quando ho poi approcciato la critica sono arrivato infine a farli, i film, perché il lavoro non era diverso”.

Una narrazione circolare che inizia con Los Desafios (1969), segmento di un lungometraggio prodotto da Elias Queregeta che ne comprendeva altri due e che gli ha permesso di individuare tutto ciò che un buon “mestierante” non dovrebbe fare. “Ho sentito la necessità di chiudermi in solitudine per i successivi quattro anni, dopo i quali è nato “El espíritu de la colmena” (Lo spirito dell’alveare, 1973). La rivista per cui scrivevo all’epoca  voleva affermare una resistenza esplicita al regime politico e una delle caratteristiche stilistiche era usare la prima persona plurale “noi”; ecco, in quei quattro anni sono riuscito a trovare il mio “io”. La nascita de El espíritu è assolutamente casuale come molte cose nel mio cinema: il produttore aveva un distributore che voleva un film su Frankenstein e mi chiese se potevo farlo. Nella prima versione della sceneggiatura ho creato un film di genere, ma le scenografie avrebbero richiesto finanziamenti costosi, così dovetti ripensare a un Frankenstein dei poveri. Del resto, tutti i miei film lo sono, e mentre crescevo d’età i budget diminuivano; La morte rouge, per esempio, l’ho girato quasi da solo, ma questo è il cinema contemporaneo. El espíritu de la colmena ebbe un successo insperato: da parte della critica, del produttore, perfino per me. Volevo fare un atto di ribellione verso la società e questa invece mi premiava; in fondo, paradossalmente, è stata una sconfitta”.

Ed è proprio ne El espíritu de la colmena che si fa più vivida quella perdita di innocenza richiamata anche nel più recente La morte rouge (2006) che pur seguendo temporalmente l’altro, ne costituisce prologo e fondamento. La piccola Ana assiste per la prima volta alla proiezione di Frankenstein, ma a differenza di sua sorella Isabel non distingue tra realtà e finzione. “Ana – spiega l’autore – ha la fiducia tipica dei bambini; crede anche alla storia inventata da sua sorella che sostiene che un “mostro” abiti nel casolare abbandonato e decide che vuole andare a incontrarlo”.

Che sia il cinema, per l’autore, ma anche per lo spettatore, la voglia di esorcizzare le proprie paure? “Statisticamente – continua Erice – la prima esperienza cinematografica si lega sempre a immagini di terrore. Si pensi alla reazione di paura che provocò la proiezione dei Lumière dell’arrivo del treno in stazione negli spettatori presenti. Ha sempre a che vedere con le suggestioni di film che abbiamo visto da bambini”.
Non a caso infatti ne La morte rouge il bambino protagonista, nonché alter-ego del regista – afferma di aver scoperto a cinque anni durante la visione del suo primo film L’artiglio scarlatto, l’altra faccia della finzione: un buco nero nella trama della realtà nel quale è finita tutta l’innocenza del mondo.

Una sapiente orchestrazione di luci e ombre, di dissolvenze incrociate – di cui Erice ne rappresenta il maestro indiscusso – che assumono i contorni di consapevolezze, come quella di Estrella, protagonista del successivo El Sur (1983), che scopre la fragile umanità di suo padre, fino a quel momento per lei simile a un Dio, dotato di straordinarie capacità divinatorie come quella di rabdomante.

“Ho un grande rimpianto per quel film – spiega Erice – perché al Sud la protagonista non ci è mai arrivata. È  la mancanza più grande perché non c’è la prospettiva morale. Al Sud, terra di origine del padre, la ragazza avrebbe compreso meglio l’identità di quest’uomo e sarebbe stato determinante per diventare adulta. Nel progetto il film sarebbe dovuto durare oltre due ore, ma sono mancati i finanziamenti. Mi sarebbe sempre piaciuto riunire in una pellicola il Nord e il Sud, cosa mai accaduta nel cinema spagnolo. La divisione tra quei poli rappresentava per me la frattura nello spirito della nazione verificatasi durante la guerra civile; la stessa che ho vissuto da bambino nella mia famiglia, divisa tra repubblicani e fascisti.”.

Vita, morte e sogno sono temi universali della pittura e della poesia. Erice ammette di averli trattati in maniera quasi incosciente. E con un sogno termina anche il suo ultimo lungometraggio El sol del membrillo (Il sole della mela cotogna, 1992) nel quale il protagonista, Antonio López García, ritrae incessantemente un albero di cotogno nel tentativo di coglierne la luce perfetta.
“Avevo passato con lui l’estate del 1990 – racconta il regista -. Mi aveva parlato di un sogno ricorrente in cui era protagonista questo albero. L’ultimo giorno, quando ancora non sapevo che film avrei fatto da tutti i miei appunti, mi disse che il sabato successivo avrebbe iniziato a dipingere il cotogno che lui stesso aveva anni prima piantato in giardino. Intuii che c’era qualcosa dietro quel progetto e ricordai il sogno. Mi disse che ogni autunno si metteva a dipingerlo perché, nonostante fosse un albero piccolo, era molto generoso; rappresentava il modo di auto-ripagarsi del duro lavoro dell’estate, passata a dipingere contemporaneamente altri quadri. Ho scoperto, facendo il film, che quello era l’albero della sua infanzia. La cosa più difficile della pellicola è stata conciliare la prospettiva documentale con quella più intima del sogno e non avere, per la prima volta, una sceneggiatura a sostegno, né un’opera letteraria di rimando come era accaduto nella costruzione degli altri personaggi dei miei film. Sono queste le cose che amo nei miei lavori, perché mi permettono di scoprirli mentre li faccio. Non mi piace il ruolo del deus ex machina, non voglio mai sapere troppo”.

La rassegna, organizzata da Apulia Film Commision, UZAK e CaratteriMobili, proseguirà martedì 4 giugno con “La leggenda di Kaspar Hauser” di Davide Manuli con Davide Silvestri e Gemma Adesso.

Alessandra Nenna