Erri De Luca ha offerto il suo appassionato racconto come “la testimonianza di uno nato dopo”, come uno che “nato a metà del ‘900 ha conosciuto la prima metà del secolo attraverso il racconto trasmesso da altri, ma vissuto e partecipato come ultimo dei migranti e dei rivoluzionari del secolo scorso”.

Parte dalla guerra, De Luca , dalla seconda Guerra Mondiale, diversa dalla prima, perché inaugura i conflitti  futuri all’insegna del terrorismo: il bombardamento delle città, l’uccisione di civili indifesi, lo sterminio a casaccio. Tra le città, Napoli è stata la più bombardata. I bombardati portano nel sangue questa violenza il cui ricordo si trasmette con il racconto, storie che lo scrittore ha imparato attraverso i muri di tufo, della sua città, che le trattengono, le custodiscono e le filtrano per le generazioni seguenti.

Da Napoli a Varsavia, visitata nel 1993, lo scrittore si è messo alla ricerca dei segni dello sterminio del ghetto ebraico, completamente raso al suolo dai nazisti, ma caparbiamente ricostruito dai polacchi, attraverso i dipinti del Canaletto. I nazisti sono riusciti a cancellare anche una lingua, l’yiddish, parlata da ben 11 milioni di persone:

«Nel vedere l’enorme archivio di testi scritti in caratteri ebraici ma in una lingua sconosciuta, (tedesco antico), ho provato un sentimento di vergogna, perché da lettore dell’ebraico biblico non ero in gradi di decifrare quei testi. Ho deciso allora di studiare l’yiddish. L’ho fatto in fretta aiutandomi con un grammatica inglese.»

Dal Ghetto di Varsavia gli ebrei riuscirono a far scappare alcuni. Come resto di se stessi scelsero i poeti e scrittori, per sputare il seme della parola fuori da quella prigione. Uno di questi fu Itzak Katzenelson, che così riuscì a scrivere quello che Erri De Luca considera “il vertice letterario dell’esperienza della shoah”, “Il Canto del popolo Yiddish messo a morte” e che ha deciso di tradurre per Mondadori.

Salvatore Schirone