Non è reato dichiarare il falso nell’autocertificazione nel caso in cui non si dica il vero in merito agli spostamenti in violazione dei divieti imposti dalle normative Covid. Tutto ciò emerge nell’assoluzione in rito abbreviato della giudice Alessandra Del Corvo in merito al primo caso finito a processo a Milano.

Il caso, come scritto sul Corriere, riguarda un commesso di un negozio il quale, dopo essere stato controllato nella stazione ferroviaria il 14 marzo 2020, aveva autocertificato un motivo poi non confermato dalla verifica dei turni di lavoro.

La ragione della impossibilità di incasellare questa falsità nell’articolo 483 è che la norma non prevede un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato fa al pubblico ufficiale, ma pretende che la documentazione pubblica dell’attestazione del privato abbia una specifica rilevanza giuridica.

“In tutti i casi nei quali l’autodichiarazione infedele è resa dal privato in un controllo casuale sul rispetto della normativa Covid – scrive la giudice – appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge”.

“Non è rinvenibile nel sistema una norma che ricolleghi specifici effetti a uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale – si legge -. Anche perché un obbligo di riferire la verità sui fatti dell’autodichiarazione sarebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (articolo 24 della Costituzione) e con il principio per cui nessuno è obbligato ad autoincriminarsi”.

Nel frattempo resta sul piano amministrativo la segnalazione dall’autorità che ha effettuato il controllo al prefetto affinché valuti la condotta e infligga una sanzione amministrativa sanzione comunque impugnabile.