Da settimane il dibattito attorno alla terapia con plasma dei pazienti guariti da coronavirus o in convalescenza come cura per lo stesso Covid-19, si è fatto sempre più acceso. Il sapere scientifico è diviso in due tra chi sostiene che i risultati ottenuti in laboratorio e sui primi campioni siano incoraggianti e chi invece mostra qualche perplessità in merito.

La cura prevede di ricorrere ai soggetti che hanno contratto l’infezione e che hanno sviluppato anticorpi in grado di neutralizzare ulteriori attacchi. Una tecnica già usata in passato nella medicina, la terapia con plasma impiegherebbe concentrati di immunoglobuline iperimmuni con elevato titolo anticorpale, cioè contenenti proteine specifiche che neutralizzano il SARS-CoV-2, prodotti che vengono trasfusi a persone ospedalizzate in condizioni critiche.

Il primo studio al mondo di cura con il plasma contro il coronavirus nasce in Italia, sono stati Cesare Perotti e Massimo Franchini, direttori di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale a Pavia e Mantova, i primi a pensare a questo particolare trattamento. Pian piano alcuni ospedali hanno iniziato ad adottarlo, anche se è difficile trovare un donatore e capire se il suo numero di anticorpi basta.

“Possiamo puntare anche sul plasma: è uno degli ausili terapeutici, ma non è la soluzione finale. Solo il vaccino sconfiggerà definitivamente il virus – afferma Pier Luigi Lopalco, epidemiologo a capo della task force pugliese -. Il problema è che la disponibilità è limitata: bisogna andare a trovare il soggetto che ha avuto la malattia grave e che abbia sviluppato anticorpi neutralizzanti. Bisogna trovare il donatore, con un esame particolare, che pochi laboratori in Italia riescono a fare, per individuare questi anticorpi”.

“Serve un certo numero di donatori, questi devono avere degli anticorpi iperimmunizzanti e quindi avere una certa scorta di questo plasma iperimmune – dichiara -. Per cui si capisce bene che non è la soluzione agevole al problema. È un ulteriore aiuto che viene dato ai clinici soprattutto per cercare di fronteggiare i casi più gravi”.

“Il plasma interviene sulla replicazione del virus. È importante che la gente capisca che questo non è un’alternativa il vaccino, non serve a prevenire: è una cura dei casi particolarmente gravi – continua Lopalco -. Questo protocollo funziona e stanno funzionando anche altri farmaci”.

“Ci sono tantissimi progetti ma solo pochi adesso sono in fase di sperimentazione sull’uomo. Questo significa che molto probabilmente entro la fine dell’anno riusciremo ad avere un vaccino che abbia dato prova di efficacia e sicurezza. Ma questo significa che non prima del prossimo anno potremo avere degli stabilimenti per produrlo, sempre che riusciamo a trovare il vaccino che funzioni – conclude -. Se abbiamo già le linee produttive pronte per quella tipologia di vaccino che viene trovato, ci vorranno almeno 6 mesi del prossimo anno per avviare una produzione che sia minimamente soddisfacente. È ovvio che il virus muta ma per fortuna questo è un virus che non muta molto velocemente né molto sostanzialmente. I vaccini comunque si disegnano tenendo presente proprio di queste mutazioni. Se avremo un vaccino significa che questo vaccino funzionerà”.

“La terapia con plasma è interessantissima ma è una terapia con emoderivati. Più o meno come il siero antitetanico. Per cui vi è il teorico rischio di trasmissione di malattie infettive (HIV, epatite ecc) – scrive su Facebook Danilo Antonio, medico del 118 -. Il paziente che riceve la terapia deve accettare e sottoscrivere. I donatori devono essere necessariamente pazienti guariti. Non serve ad un accidente un donatore normale. Occorrono donatori volontari tra coloro che si sono ammalati ed hanno sviluppato una risposta anticorpale”.

“Non sappiamo QUANTI donatori e QUANTO plasma servirebbe per la terapia di migliaia di persone. Dovrebbero essere utilizzate una o due sacche di plasma, prelevate da donatori che rispondono a certi requisiti – spiega l’operatore sanitario -. Con buona pace di chi pensa che si avrebbe una cura naturale e gratuita, non si tratta di fare una trasfusione da un parente all’ammalato, o da un paziente guarito al suo vicino di stanza. Bisogna trattare migliaia di pazienti in ogni nazione, quindi necessariamente la procedura deve essere industriale. Sappiate che non tutto cresce sugli alberi: i farmaci no. Neppure quelli omeopatici”.

“Questa terapia ha il piccolo difetto che CURA qualcuno già ammalato. Il vantaggio del vaccino è che impedirebbe del tutto il contagio. Ma in attesa del vaccino, è già un grosso risultato – assicura Danilo Antonio -. La terapia può esser certo definita promettente, e forse vale la pena di usarla in emergenza, ma prudentemente io mi aspetterei test a più ampio raggio, magari reclutando centri internazionali e confrontando i dati. Mi sembrano prematuri i giudizi definitivi. Sappiamo che nel plasma, ovvero la componente liquida del sangue, senza le cellule, come globuli rossi e bianchi, vi è qualcosa che cura gli ammalati. Questo qualcosa sono gli anticorpi. Insomma quando un virus aggredisce l’organismo, questo si difende con gli anticorpi. Il vaccino fa la stessa cosa, simulando una infezione, ed inducendo la produzione di anticorpi. Ma in questo momento non lo abbiamo. Che facciamo allora? Prendiamo gli anticorpi già pronti, nel sangue di un guarito, e li trasfondiamo nel paziente ammalato, nella speranza che uccidano il virus come hanno fatto nel paziente guarito. Pare che funzioni. Bellissimo, facile. No, non è esattamente cosi: nel plasma che noi trasfondiamo non vi sono “solo” gli anticorpi verso il corona virus, ma parecchie altre cose che potrebbero avere qualche effetto: proteine, ormoni, parecchi altri tipi di anticorpi. Ricordate che è sempre il sangue di qualcun altro e questo anticorpi sono stati prodotti per difendere quell’organismo. Se messi altrove potrebbero riconoscere come estranee componenti normali”.