I dati diffusi dalla U.I.L.(Unione Italiana del Lavoro) sulla disoccupazione in Puglia sono a dir poco allarmanti; si è infatti passati da un tasso del 15,2%, registrato nel secondo trimestre del 2012, al 19,1% del secondo trimestre del 2013. In un solo anno c’è stata un’impennata pari quasi al 4%, ma a farne maggiormente le spese sono stati i giovani, tra i 15 e i 29 anni, visto che il loro tasso di disoccupazione ha superato in media il 45%, e si è addirittura assestato oltre il 50% per quanto riguarda la componente femminile.

Quello che spaventa ancora di più, però, è il pensiero che, con ogni probabilità, non abbiamo ancora toccato il fondo, se pensiamo alle decine di migliaia di lavoratori dell’Ilva, della Om Carrelli, della Bridgestone, della Natuzzi e di una miriade di altre fabbriche, il cui destino, nonostante le tante promesse di politica e sindacati, sembra irreversibilmente volgere al peggio.

Sporge allora spontaneo domandarsi da cosa dipenda questa congiuntura così terrificante. Certo la prima causa è legata alla perversa combinazione della crisi internazionale con l’austerity (eufemismo europeista che significa solo lacrime e sangue), la quale ha enormemente contratto gli investimenti pubblici di cui il Mezzogiorno, compresa quindi la Puglia, era beneficiario.
Eppure, se l’Italia (e soprattutto il Sud) è l’unico paese del G8 ancora in recessione, questo vuol dire che si sono anche altri motivi per cui continuiamo a perdere posti di lavoro; quello principale consiste nell’assoluta mancanza di politiche industriali.

L’esempio più lampante è rappresentato proprio dalla Puglia, dove ancora si ragiona con logiche del passato, destinando alle multinazionali centinaia di milioni di euro, le quali, finiti nel giro di qualche anno i finanziamenti pubblici, delocalizzeranno comunque la loro produzione. Non si immagina, invece, che con quegli stessi soldi si potrebbe ammodernare il sistema produttivo industriale, rendendolo più competitivo, potenziare la filiera turistica e investire su corsi professionali, che farebbero dei tanti cassaintegrati, esodandi ed esodati pugliesi una manodopera qualificata e appetibile sul mercato, anziché essere costretti e rassegnati a un futuro misero.

Al momento, in Puglia, cresce soltanto la disoccupazione.