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A Bari si dice che l’aggiusto può essere peggio del guasto. Nella storiaccia dei prelievi a domicilio effettuati da infermieri in pensione o fuori dal loro turno di servizio, in nero e senza il rispetto delle più elementari norme ambientali e di sicurezza, è andata proprio così. Terrorizzati gli infermieri con la minaccia di sanzioni esemplari dai vertici delle Asl, che finora hanno chiuso tutti e due gli occhi sul diffuso malcostume, non si è pensato di dare subito un’alternativa a quanti davvero non possono fare altrimenti.

L’inchiesta della Guardia di Finanza e dei Carabinieri prosegue, così come non cessa l’opera di sciacallaggio. Nei guai potrebbero finire presto i dirigenti che hanno chiuso tutti e due gli occhi sulle segnalazioni che arrivavano dagli stessi dipenenti, stufi di questa prassi. In mezzo ci sono loro, i pazienti più deboli, come le due protagoniste della storia che vi raccontiamo: una 94anne non deambulante, ipovedente, malata di cuore e con problemi neurologici e sua nipote trentenne al nono mese di gravidanza.

La più giovane delle due donne chiama come al solito l’infermiere per il prelievo a domicilio. Dieci euro in nero una volta al mese. Si tratta di un prelievo necessario affinché l’ospedale Di Venere di Bari possa mandare a casa la terapia salvavita del cumadin. L’anziana in questo periodo ha pure la bronchite. L’infermiere non risponde al telefono. La donna incinta a questo punto comincia a farsi dare numeri di altri infermieri, ma niente. È l’ultimo giorno della terapia precedente.

Dopo diversi tentativi, un infermiere in pensione accetta di andare ad effettuare il prelievo per soli 5 euro. Il guaio, però, è che non vuole firmare l’indispensabile dichiarazione. Lascia la provetta sul tavolo della cucina e se ne va. Inizialmente si propone il medico curante, ma poi si tira indietro perché si renderebbe complice di un altro illecito.

La nipote, al nono mese di gravidanza, decide di mettersi in auto e andare al Di Venere con la sola provetta, trasportata alla meglio e senza la dichiarazione obbligatoria dopo l’abuso dei decenni scorsi. Abuso che in alcuni ospedali continua come se nulla fosse successo. Dall’altro lato del vetro, l’addetta all’accettazione spiega che quel campione non lo potrebbe accettare, ma che trattandosi di una terapia salvavita non può esimersi.

L’assurdità della faccenda sta tutta nell’incapacità di fornire un’alternativa. La nipote della 94enne allettata, disperata, perché il mese prossimo il problema si ripresenterà, chiede allo sportello di avere il riferimento di una delle associazioni o cooperative accreditate. L’infermiera non sa rispondere. La Asl non ha consegnato un elenco, sempre esistano davvero enti privati in grado di espletare il prelievo come da protocollo e normative vigenti. Su un foglietto di carta, però, l’infermiera ha segnato le indicazioni di altri pazienti. Tre i nomi appuntati, due dei quali di cooperative accreditate per il trasporto di infermi e malati non certo per i prelievi a domicilio. Nonostante la supplica della paziente, nessuna risposta.

“Tra venti giorni saremo al punto di partenza – spiega la giovane donna incinta – io dovrò partorire e bisognerà provvedere all’incombenza. Direttore generale della Asl Bari si metta nei nostri panni. Ci dica se si può provvedere con il servizio di assistenza domiciliare della Asl, oppure pubblichi un elenco di associzioni e cooperative accreditate, in modo da ovviare al rifiuto degli infermieri, ormai terrorizzati dall’idea di perdere la pensione o il lavoro in seguito a una prassi che, almeno per quanto riguarda mia nonna, va avanti da sette anni. Finora siamo andati a turno a consegnare la provetta, senza nessuna limitazione”.