Si può accettare di essere schiavizzati perché non esiste nessun’altra azienda disposta a garantirti un’occupazione dignitosa? Accontentarsi del meno peggio sembra essere l’unica via d’uscita, al netto dell’emigrazione. È tutto qua il punto della questione. Dopo la messa in onda del servizio delle Iene sulle condizioni di lavoro all’interno di Max Cina, l’aria nel grande negozio sulla statale 96 è pesante.

“Abbiamo paura di essere licenziati – dice uno dei dipendenti – perché chi è stato ripreso era assolutamente riconoscibile”. Più di questo e della solita domanda: “Chi le ha dato il mio numero?”, l’operaio non dice altro. Se nessuno dei dipendenti, pagati appena 2.50 euro l’ora, anche in nero, ha voluto metterci la faccia, un motivo ci sarà. E non importa quale sia.

Mancanza di coraggio, paura di restare senza quei pochi soldi, l’assenza di alternative adeguate. Quella volontà andava rispettata. Si può essere d’accordo o no, ma quanto vale la denuncia a tutti i costi? Sacrosanta, ma solo se dopo – e non sempre succede nel Paese di Pulcinella – a pagare è l’imprenditore che aggira le regole, senza assicurare ai propri dipendenti le tutele minime. E qualora accada, non è detto che quegli stessi dipendenti possano conservare il lavoro.

Dal punto di vista di quegli schiavi, andava rispettato l’anonimato nel senso letterale del termine. Non c’è un solo dipendente finito davanti alla microcamera che non sia riconoscibile. Fin quando ci saranno persone disposte a farsi schiavizzare, gli imprenditori, cinesi e italiani che siano, avranno terreno fertile. A meno che Johnny non abbia ricattato o minacciato i suoi dipendenti, il vero problema non è tanto lo sfruttamento, quanto l’incapacità di dare alternative valide a uomini e donne, ragazzi, padri o madri illusi da redditi di qualsiasi tipo, ma in realtà costretti a farsi la guerra per pochi maledetti euro.