di Gaetano Di Liso

Sono un ragazzo della provincia barese, laureato in giurisprudenza e iscritto all’albo degli avvocati presso la Corte d’Appello di Bari. Da alcuni mesi vivo a Dublino, in Irlanda.
Scopo di questo post non è quello di scoprire l’America, a questo ci hanno pensato altri prima di me, lo scopo, molto più semplice, è quello di ribadire qualcosa di ovvio, con gli occhi però di chi questa esperienza la vive in prima persona, la finalità è quella di evidenziare la differenza delle condizioni di lavoro tra l’Irlanda e l’Italia, con un occhio particolare a quel sud da cui provengo.

A dispetto delle parole del nostro premier, che poco rispettano i sacrifici di chi vive lontano dal nostro amato Paese, lontano dalla famiglia, dagli amici di sempre, lontano da tutto ciò che significa appartenenza e vita, tengo a precisare che davvero poche sono le persone che vivono all’estero per scelta, con voglia di essere all’estero.

Sovente, tale scelta avviene per un’esperienza limitata nel tempo, come per un progetto Erasmus, o un dottorato di ricerca, più comunemente chi va all’estero per lavoro, con la concreta possibilità di non rientrare in Italia, lo fa quasi per necessità o per ambizione; che Paese è quello che ha privato I suoi giovani dell’ambizione?

Il mio ambito è quello legale. Nel sud Italia, la maggior parte dei praticanti avvocati e dei giovani avvocati lavora negli Studi in condizioni di totale sfruttamento della dignità, lavora senza che il tempo abbia un costo e un valore, quasi dovendo prostrarsi in adorazione al “dominus” per l’opportunità concessa, sapendo che, se si pretendesse un riconoscimento economico per le ore di lavoro, indipendentemente dall’apporto dato alla produttività dello studio in mancanza del quale la conseguenza dovrebbe essere l’allontanamento dallo stesso e non il mancato pagamento, si verrebbe cacciati dopo due
minuti.

L’idea dominante, tra l’altro neanche minimamente celata, è che se uno non accetta quelle indegne condizioni, “ce ne sono migliaia di laureati in giurisprudenza pronti a lavorare gratis”. Perché la domanda è notevolmente superiore all’offerta, perché fare gli avvocati o anche i praticanti avvocati è figo,e lo si fa anche gratis, in previsione di un futuro roseo. Come se 27, 30 o 35 anni, non meritassero di essere vissuti con pienezza e dignità, con riconoscimento di un impegno, di uno sforzo, di una prestazione di lavoro, e di porre
il proprio tempo e le proprie competenze, eventuali o potenziali, a disposizione dello staff per cui si lavora. Come se davvero poi arriva quel futuro roseo, che spesso resta solo futuro e basta, senza la parola roseo.

Conosco personalmente, o per il tramite di amici e conoscenti, situazioni che fanno rabbrividire, dove le tutele del lavoratore sono solo carta, anzi sono carta straccia, penso a una società importante di ristorazione, con appalti vinti in gran parte della penisola, dove uno stagista lavora per 400-500 euro al mese per 6 ore al giorno da contratto, 6 ore però, solo sulla carta, in realtà le ore non sono meno di 8, 9, 10, 11 al giorno, dietro più o meno velate minacce o ricatti, dove da contratto si lavora dal lunedì al venerdì, ma spesso si lavora anche di sabato senza che questo ulteriore lavoro comporti aumenti di salario e rientri nella voce “lavoro straordinario”.

Aziende dove la formazione dei nuovi dipendenti è pressoché inesistente e affidata a soggetti non inquadrati in un organigramma serio, aziende nelle quali si lavorava in un clima di terrore, di negatività, di demoralizzazione, aziende i cui dirigenti si ergono a superman e superwoman, addirittura aziende in cui la qualità di cibo durante la pausa pranzo in mensa è differente tra dipendenti e dirigenti/manager, e ciò è paradossale se si considera l’ambito in cui questa azienda opera, aziende nelle quali, “si lavora 12 ore al giorno o non si lavora per nulla”, però le ore pagate restano sempre 6.

Arrivato in Irlanda, ho avuto subito la possibilità di misurarmi con una differente realtà lavorativa, aziende più o meno grandi e più o meno estese, operanti sul mercato internazionale, da subito valorizzano le qualità dei propri dipendenti, i corsi formativi (pagati come dovrebbero normalmente essere da contratto) sono formativi per davvero e ti permettono di accedere alla tua posizione lavorativa con competenze da poter mettere subito al servizio dell’azienda, contratti di probation semestrali che diventano dopo 6 mesi
contratti permanenti, altro che voucher e jobs act.

In Irlanda l’ambiente di lavoro è particolarmente positivo, smart, ciascun dipendente, dal primo all’ultimo, si sente perfettamente integrato in un contesto multiculturale e multietnico, ciascun dipendente viene investito di responsabilità e viene apprezzato, non è un numero, è un elemento che, con le sue caratteristiche, è fondamentale per la buona riuscita e il successo dell’impresa. Lo scopo dell’azienda è quello di mettere i dipendenti nelle migliori condizioni possibili, al fine di rendere di più e meglio. Sul posto di lavoro la serenità è una priorità, lo stesso dicasi dell’interazione tra i dipendenti che, spesso, va al di là delle 8 ore lavorative.

Otto ore appunto, 8 e non 8 che diventano 10, 11, 12, in Irlanda si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Il rapporto manager-supervisor-dipendenti è un rapporto paritario, qui ci si confronta serenamente, si pranza alla stessa mensa, mangiando lo stesso cibo, e dopo ci s’incontra per una birra o per una partita a calcetto, e le possibilità di crescita all’interno della stessa azienda sono decisamente più rapide e concrete rispetto alle aziende italiane, qui si lavora per il ruolo per cui si è assunti, e nessuno si sogna di assumerti per una
mansione, facendoti poi fare altro, nessuno ti assume nell’ufficio personale per farti fare solo fotocopie o spolverare il magazzino e ordinare i fascicoli.

Nelle aziende irlandesi, lo stipendio è puntualmente accreditato, senza neanche un giorno di ritardo, conosco situazioni lavorative a Bari in cui spesso occorre attendere giorni, settimane e anche mesi per gli stipendi, situazioni in cui i dipendenti sono costretti a firmare dimissioni in bianco, e in cui ribellarsi è impossibile perché sicuramente significa avviarsi sulla strada del licenziamento.

Tutto ciò in Italia è possibile perché è completamente assente il controllo dello Stato, perchè queste aziende sono “tutelate” al punto da non temere denunce o controlli. Nel totale silenzio dei sindacati, troppo spesso protesi delle aziende e quasi mai ausilio per i lavoratori, questi ultimi sono sempre la parte debole, ricattabile, sfruttabile. Dov’è lo Stato in tutto questo? Qual è il suo ruolo? Che Stato è uno Stato che non tutela lavoratori costretti a firmare dimissioni in bianco al momento dell’assunzione? È uno Stato quello il cui capo di Governo può permettersi di dire che la “fuga dei cervelli è retorica”?

Questo è un dramma sempre, ancora di più se si ha una famiglia a cui badare o un mutuo da pagare, è così che ti tengono ostaggio di te stesso. Qui in Irlanda, a “soli” 3mila km da casa, sembra di essere anni luce lontani da realtà lavorative improntate sul clientelismo, sulla raccomandazione, sull’essere figlio di che a sua volta è nipote di e cugino di e così via.

È per questo che spesso l’estero diventa una prigione dorata da cui diventa sempre più difficile scappare, e l’Italia diviene sempre più un miraggio, con il suo splendido clima, il suo bel mare, il suo ottimo cibo, la sua smisurata passione per il calcio, ed è così che lentamente ed inesorabilmente ci si abitua a parlare con i propri genitori su whatsapp, a vedere i propri amici su facetime, a vedere la propria sorella una volta l’anno.

Le colpe di tutto questo sono di tanti, e comunque non escludono un’auto critica che, nel mio caso, ho più volte fatto, confrontandomi con la mia coscienza. Sarebbe però almeno dignitoso evitare dichiarazioni da parte di rappresentanti delle istituzioni che facciano sentire gli italiani all’estero meno soli e meno lontani da casa. Non cerco visibilità e non ho manie di protagonismo, semplicemente tutto ciò che ho (poco o tanto) lo devo solo a me stesso e ai miei genitori e questo mi rende un uomo libero, libero di denunciare, di
raccontare, di scegliere. A questa libertà non rinuncerò mai, che sia nella mia amata Bari o a 10mila km di distanza.