Donne iraniane durante una manifestazione di dissenso contro regime nel 1979 (fonte Twitter)

«Dovremmo prestare attenzione alle parole che il popolo iraniano canta per le strade del proprio Paese e di altre città del mondo e capire il significato che si cela dietro di esse. “Donna, Vita, Libertà” rappresenta una società che cerca una vita normale, dove i diritti umani siano rispettati». Questo il monito di Shahin Modarres, Direttore dell’Iran Desk del centro studi ITSS di Verona e Analista della sicurezza internazionale. Secondo un Rapporto di due organizzazioni umanitarie, Iran Human Rights e Against Death Penalty, nella Repubblica islamica sarebbero state eseguite 582 condanne a morte solo durante il 2022, ovvero oltre il 75% di esecuzioni in più rispetto al 2021. In seguito alla morte della ragazza curda Mahsa Amini, incarcerata a Teheran dalla Polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab e deceduta misteriosamente durante la detenzione, il popolo iraniano, guidato da donne in prima linea, si è sollevato coraggiosamente contro il regime islamico. Le autorità hanno messo in moto una vera e propria macchina del terrore, i cui artigli hanno colpito non soltanto i manifestanti ma l’intera popolazione civile nel tentativo, ad oggi riuscito, di soffocare nel sangue il dissenso politico. L’attenzione su certi aspetti che caratterizzano la vita del popolo iraniano dal 1979 – anno in cui è stata deposta la monarchia filo-occidentale in favore della Repubblica islamica – però, ha avuto una certa rilevanza nelle politiche delle grandi democrazie soltanto di recente.

L’interesse per ciò che accade in Iran e la battaglia per i diritti umani soppressi dal mondo islamico più radicale tornano adesso ad ispirare titoli di giornali, rivoluzioni studentesche e discorsi politici in ambito internazionale. Teheran è attualmente – senza mettere da parte Kabul – il luogo in cui più di ogni altro si rende manifesta l’impossibilità di convivenza politica e sociale tra Occidente e Islam radicale, tra democrazia e regime teocratico. L’Iran è guidato da un regime che nega diritti fondamentali, punisce con la morte il dissenso, discrimina le donne in quanto donne e non tollera la libertà di culto. Abbiamo voluto porre qualche domanda a Modarres e alle sue ricercatrici dell’Iran Desk Margherita Ceserani e Yasmina Dionisi riguardo delicate questioni che allontanano l’Iran da uno scenario democratico possibile: dura repressione delle proteste, Polizia morale e legge islamica, attendismo occidentale e rapporto con le Nazioni Unite.

Qual è il suo commento riguardo l’attendismo occidentale nei confronti della situazione in Iran? Secondo lei, quale potrebbe essere un futuro scenario all’interno del vostro Paese? 
Shahin Modarres – «Sfortunatamente, l’attendismo occidentale non è un fenomeno nuovo. Per decenni la neutralità di molti governi occidentali nella loro politica estera ha stabilizzato l’ostilità regionale e internazionale della Repubblica islamica e la condanna superficiale delle estreme violazioni dei diritti umani in Iran non è mai stata efficace. Sembra che molti governi occidentali preferissero tollerare il regime degli Ayatollah per interessi economici e per quella che credevano erroneamente una sorta di stabilità regionale. Questo approccio è ora cambiato principalmente per due ragioni. In primo luogo, la pressione politica creata dalla combinazione della spietata repressione degli iraniani all’interno del Paese e la partecipazione attiva e dinamica della diaspora iraniana in Europa e Nord America. I politici potrebbero non preoccuparsi del popolo iraniano, ma saranno ritenuti responsabili dai loro elettori una volta che questi saranno a conoscenza della situazione. Il secondo motivo è l’esistenza di prove evidenti della partecipazione della Repubblica islamica all’invasione russa dell’Ucraina. In questo momento, a seguito dell’indicazione di numerosi rapporti sulla vendita di droni kamikaze e missili balistici utilizzati in Ucraina, il regime dell’Ayatollah ha commesso un grave errore strategico ponendosi di fronte all’UE e alla NATO. Il futuro dell’Iran deve rappresentare la volontà collettiva del popolo iraniano indipendentemente dall’etnia, dalle convinzioni religiose, dall’orientamento politico o sessuale, ecc. Il futuro dell’Iran deve essere costruito sulla base di una società democratica. Dovremmo prestare attenzione alle parole che il popolo iraniano canta per le strade del proprio Paese e di altre città del mondo e capire il significato che si cela dietro di esse. “Donna, Vita, Libertà” rappresenta una società che cerca una vita normale, dove i diritti umani siano rispettati, una società che benefici dell’uguaglianza di genere e, infine, una società e una struttura politica che possano garantire la continuità della pace e della stabilità all’interno della nazione e tra i vicini. Indipendentemente dal tipo di struttura politica, il popolo iraniano dovrebbe esprimere la propria volontà collettiva, inseguendo uno stato democratico laico che benefici delle norme liberali. Uno stato in cui l’ideologia ha perso colore».

Le immagini che ha il pubblico occidentale di un Iran anni ’70 differiscono notevolmente dal Paese attuale. Quali sono stati, recentemente, i cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale?
Margherita Ceserani – «A fine anni ’70, al momento dello scoppio della Rivoluzione, gli Iraniani guardavano solo alla fine della monarchia senza dare troppo peso alla connotazione religiosa espressa dal titolo “Repubblica Islamica”. Si sperava che la svolta democratica significasse rispetto per le tradizioni ma anche apertura verso l’Occidente. Presto, però, simboli religiosi come l’hijab o la barba hanno subito un processo di politicizzazione, per cui indossare il velo o farsi crescere la barba rappresentavano l’adesione al nuovo sistema politico. A partire dal nuovo secolo si è iniziata a registrare una presa di coscienza da parte della popolazione, che scende in piazza sia per motivi socio-economici sia per un diffuso sentimento di disillusione nei confronti del complesso apparato istituzionale. I movimenti di protesta del 2009 si presentavano come una richiesta di cambiamento graduale all’interno della cornice istituzionale iraniana, cioè espressa tramite il sostegno a candidati più moderati. Al contrario, negli ultimi anni si urla alla libertà intesa come veloce transizione verso una Repubblica iraniana, uno stato che rispetta le credenze di tutti, soprattutto includendo il laicismo e le etnie presenti all’interno dei confini persiani. L’elezione di Ebrahim Raisi alla presidenza nel 2021 ha indicato un tentativo da parte dell’establishment, che già aveva sotto il suo controllo il parlamento, l’apparato giudiziario e quello delle forze armate, di riportare il Paese su una linea più conservatrice. È interessante osservare come il crescente impiego dell’uso della forza si associ anche con le preoccupazioni di un possibile vuoto di potere data l’anziana età del leader supremo. Ad ogni modo, l’aspetto repressivo e violento del sistema politico-clericale non è più accettato né temuto dalla società iraniana e soprattutto dalle donne oggi in prima linea nella lotta per il diritto di scegliere se indossare il velo o meno».

Le proteste a cui abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo a Teheran non sono inedite, esistono da quasi 40 anni. Come mai l’opinione pubblica occidentale dà ampia rilevanza alla voce del popolo iraniano soltanto adesso? 
Margherita Ceserani – «Dalle origini della Repubblica Islamica, i movimenti di protesta contro il regime si sono fatti sentire in molteplici occasioni. A partire dal 1999 sono infatti state quattro le proteste più rilevanti, aventi tuttavia caratteristiche eterogenee. Se i primi moti coinvolgevano solamente gli studenti dell’università di Teheran, investiti da una violenza senza precedenti da parte delle Guardie Rivoluzionarie (pasdaran), le successive hanno coinvolto sempre più una larga fetta della popolazione sia in termini di distribuzione geografica che di scala sociale. Pertanto, si arriva oggi a una convergenza di interessi fra classe media, nuove generazioni, donne e minoranze etniche, che richiedono l’estromissione dell’aspetto religioso dalla politica della Repubblica. Lo sviluppo lineare delle forze di opposizione rende la questione rilevante all’opinione pubblica internazionale, che accoglie gli slogan universali alla libertà e sperano di vedere implementata una riforma in senso democratico. Inoltre, la questione si inserisce anche nelle negoziazioni per il nucleare con l’Iran, che oggi è sottoposto alle sanzioni economiche estere. Si teme che un inasprimento della violenza domestica e un eventuale sostegno occidentale ai “ribelli” possa portare a ripercussioni in questo campo, tra le quali la possibilità che l’Iran sviluppi una strategia nucleare in senso militare (non più civile come è stato fino ad oggi ndr)».

Qual è, esattamente, il ruolo della Polizia morale iraniana all’interno del Paese?Yasmina Dionisi – «La Gasht-e-Ershad, ovvero la cosiddetta Polizia morale terrorizza le donne da decenni. All’interno dello Stato essa ha il compito di far rispettare le regole sociali della Sharia islamica, che tuttavia si basano sull’interpretazione della Sharia da parte del regime stesso. Come ha dimostrato l’uccisione di Mahsa Amini, gli obblighi riguardano soprattutto quello a donne e uomini di vestirsi in modo modesto, ma altri codici di condotta rimandano ad esempio all’impedimento della mescolanza di uomini e donne non imparentati senza la presenza di un tutore maschile. Chi non rispetta le “norme statali sulla modestia” rischia la detenzione nei centri di “re-educazione” (il primo è stato aperto nel 2019 ndr). Dalla loro creazione – che non ha mai avuto alcuna base legale – gli agenti di hanno detenuto arbitrariamente innumerevoli donne con la scusa di non rispettare il porto dell’hijab imposto dallo Stato. Il controllo che la polizia morale esercita sulla vita quotidiana delle persone iraniana è variato nel tempo, e ciò anche in base all’ideologia del presidente. Il presidente riformista Hassan Rouhani vi si era opposto. Sotto l’amministrazione ultra conservative di Raisi invece, la presenza della polizia morale è aumentata; la leadership conservatrice vede l’allontanamento degli “strandard religiosi” come una minaccia alle fondamenta teocratiche del regime”. Raisi, infatti, ha accusato i nemici dell’Iran e dell’Islam di prendere di minacciare i fondamenti religiosi e i valori della società».

Esistono e quali sarebbero, eventualmente le armi in mano alle Nazioni Unite per intervenire sulla questione iraniana? Quali sono le difficoltà nell’agire attivamente?
Yasmina Dionisi – «L’azione collettiva della comunità internazionale deve andare oltre le dichiarazioni di condanna e gli appelli di lunga data rivolti alle autorità iraniane. Il regime ignora ripetutamente gli appelli del Segretario generale delle Nazioni Unite, dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, di molteplici procedure speciali delle Nazioni Unite, degli Stati membri delle Nazioni Unite e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a cessare l’uso illegale della forza, anche letale, contro i manifestanti, di minorenni, e a indagare e perseguire efficacemente i responsabili di uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti. Human Rights Watch, insieme ad altre organizzazioni non-governative di diritti umani, ha sollecitato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di tenere una sessione speciale per istituire un meccanismo indipendente di indagine. Il meccanismo dovrebbe condurre indagini su tali crimini e violazioni al fine di perseguire l’assunzione di responsabilità, in particolare quando le violazioni possono costituire i crimini più gravi ai sensi della legge internazionale. È importante tener a mente delle difficoltà dell’Onu di intervenire oltre un certo livello, causa rischio di accuse di ingerenza interna ad esempio».