Una settimana fa la città di Foggia si risvegliava in un incubo. Camilla Di Pumpo, promettente avvocatessa appena venticinquenne, era stata strappata alla vita, durante la notte, da un sinistro avvenuto in pieno centro e che, col passare dei giorni, ha assunto i contorni di un omicidio stradale.

La dinamica dell’incidente è ormai nota ma, per dovere di cronaca, e chissà, magari per scuotere le ultime coscienze sopite di chi ancora pensa che un episodio del genere possa essere sminuito al rango di fortuito sinistro stradale, la ripetiamo. Camilla viaggiava a bordo della sua Panda, intorno alla mezzanotte, quando un ragazzo poco più che maggiorenne, a bordo di un suv e in compagnia di alcuni amici, l’avrebbe travolta e uccisa dileguandosi subito dopo. Sul posto, oltre ai soccorsi, si è recato un buontempone, che ha pensato che la cosa più giusta da fare in quel tragico momento potesse essere sottrarre il telefono della ragazza, scivolato lungo la strada, per poi mandare un suo complice, il giorno dopo, a fingerne il ritrovamento.

Ho riflettuto a lungo in questi giorni sulla morte di Camilla. Ho pensato che raccontare la sua storia, in barba alla retorica giornalistica che vede la notizia primeggiare su tutto, potesse essere irriguardoso. Che ogni frase potesse essere superflua, fatua, al cospetto di quanto accaduto. Che la mia penna non potesse sopperire al dolore provato dai suoi cari. Che più che nelle mie parole, il suo ricordo avrebbe trovato degna espressione in quelle della sua famiglia e dei suoi amici.

Di pari passo, però, maturava in me il bisogno di fare qualcosa. Un sentimento latente e frustrante di impotenza, di fronte all’immensità della tragedia. Poi un lume. Un bagliore. Come quello delle tante fiaccole che nella serata di ieri, 2 febbraio, si sono accese in piazza Cesare Battisti per commemorare Camilla, a distanza di una settimana dal tragico evento. Ho pensato che se ci sono riusciti i suoi genitori e il suo fidanzato a trovare la forza per salire su un palco e parlare di quello che era accaduto, allora potevo e dovevo riuscirci anch’io. E ho ritenuto che le colonne di un giornale potessero essere il tramite adatto per veicolare un messaggio di giustizia.

So che è quello che avrebbe fatto Camilla, che alla giustizia aveva dedicato la sua vita. Lo so perché in questi giorni ho letto le parole strazianti del suo fidanzato e lo sfogo affranto di suo fratello. Lo so perché ho udito il grido di dolore di una città che nonostante tutto non si rassegna al lento disfacimento della sua morale e che ieri sera ha riempito una piazza orfana di una delle sue più promettenti figlie di calore e affetto. Lo so perché ho appreso da chi la conosceva che Camilla per Foggia aveva deciso di combattere. In prima linea. Nelle aule dei tribunali. Dove ci auguriamo che almeno questa volta la giustizia possa fare il suo corso.

Per questo non mi unirò al coro unanime di rassegnazione che serpeggia tra i foggiani dopo questo dramma. Perché se c’è un insegnamento che questa tragica vicenda ci lascia, è che per cambiare davvero le cose bisogna smuoversi, lottare, in qualche modo. Ognuno con i mezzi che ha a disposizione. Una denuncia, una fiaccola, un articolo di giornale.