Pubblico numeroso ed entusiasta ieri al Petruzzelli per assistere alla “prima” dell’opera “Andrea Chènier”, di cui si prevedono solo cinque repliche fino al 15 aprile.

Il battesimo del capolavoro di Umberto Giordano risale al 28 marzo 1896 al teatro alla Scala, dove ottenne un successo tanto travolgente da far apparire il compositore foggiano, non ancora trentenne, come il più dotato e vigoroso musicista della cosiddetta “Giovane Scuola Italiana”.

In quello scorcio di fine secolo, infatti, il musicista pugliese seppe cogliere meglio di ogni altro le aspettative della tranquilla borghesia milanese (benestante e consapevole della sua forza) che intendeva innovare ed aggiornare, ma non rivoluzionare o stravolgere, le proprie certezze ed abitudini di ascolto e che, in fondo, al melodramma chiedeva la rappresentazione di un mondo preferibilmente e plausibilmente drammatico con delle accentuate venature sociali per corrispondere ad una crescente “sensiblerie” verso i primi fermenti del movimento socialista internazionale ed italiano.

In effetti, nel vasto affresco storico-politico tracciato dal librettista Luigi Illica, risultano efficacemente e sapientemente mescolati , come in un straordinario crogiolo, tutti quegli ingredienti drammaturgici, sociali e politici necessari per ottenere un generale consenso di base che lievita, con inarrestabile forza, fino a trasformarsi in un travolgente successo (che dura fino ai nostri giorni) grazie alla vena creativa di Giordano che avvolge la narrazione teatrale con una musica geniale, di mirabile bellezza e straordinaria ricchezza melodica.

Oggetto quasi di una congiura del silenzio, in quanto assente ormai da lunghi e lunghi anni dalle tavole del Petruzzelli (l’ultimo ricordo personale risale agli anni 70 con Carlo Bergonzi nel ruolo del protagonista), bisogna dare merito al sovrintendente Biscardi di aver tratto finalmente dall’oblio l’ indiscusso capolavoro, presentandolo in un’edizione che vede due valorosi giovani al primo incontro con questa opera: sul ponte di comando il direttore d’orchestra Michele Gamba e, nel cast, il baritono brindisino Claudio Sgura, impegnato nel difficile ruolo di Gérard.

Il poco più che trentenne direttore milanese ha concertato l’opera secondo una strategia interpretativa compatibile con il clima verista in cui si svolge la narrazione teatrale, il cui passo viene scandito da un timing puntualmente presente nella trama orchestrale tessuta dallo stesso Autore. La sua direzione orchestrale è apparsa, però, quasi sempre arroventata, concitata e frenetica, nel segno di un ipertrofismo sonoro che non consente di ottenere quella giusta varietà di colori per esprimere appieno la densità melodica e le diverse sfaccettature che compongono la dimensione melodrammatica dell’ opera, sacrificando talvolta il canto dei grandi momenti solistici e sovrastando in qualche occasione le voci per via di tempi ed intensità sonore al calor bianco.

Dal punto di vista visivo lo spettacolo è bello in virtù anche di un impianto scenografico funzionale all’andamento e comprensione della vicenda: nato qualche anno fa al festival di Peralada Abao Olbe ( scene di Ricardo Sanchez Cuerda e costumi di Gabriela Salaverry), viaggia sui sicuri binari della tradizione grazie alla regia di Alfonso Romero Mora rispettosa della drammaturgia e della storia (cosa tutt’altro che scontata ai giorni d’oggi, visto quello che si vede in giro!).

L’idea vincente, ripresa dall’Andrea Chénier di Bologna firmato da Giancarlo Del Monaco, è quella di rappresentare il disfacimento della aristocrazia dell’epoca anche in modo fisico, plastico, a partire dal giardino d’inverno del primo atto (quello del ricevimento e dell’incontro tra il poeta e Maddalena di Coigny), il cui soffitto presenta minacciose crepe di sinistre premonizioni che si allargheranno sempre più durante l’arco narrativo, travolgendo alla fine tutto e tutti; i successivi atti si svolgono, infatti, in ambienti devastati fino alla scena finale del carcere, in cui oltre alle sbarre e tavole inchiodate alle finestre, fa capolino un “azzurro sofà” sporco e sventrato a crudele ricordo del passato e simbolo di tanta crudele e devastante sorte.

Tutto il racconto viene sviluppato utilizzando un piano fortemente inclinato verso il basso a significare l’ineluttabile precipitare degli eventi verso una fine drammatica. Lo spettacolo va avanti con scorrevolezza e si nota anche la cura del regista nel dirigere la recitazione degli artisti, anche se non appaiono di facile comprensione alcune scelte come l’eccesso di difficoltà motorie da parte del vecchio padre di Gérard, trasformato quasi in una macchietta da avanspettacolo e l’estemporanea apparizione di due nerboruti e discinti ballerini durante il ricevimento i cui movimenti coreografici non hanno molto da spartire con la musica e con il clima generale in cui si svolge la vicenda.

Il cast, di caleidoscopica provenienza, ha visto primeggiare il soprano bulgaro Svetla Vassileva che è stata una Maddalena giovane e appassionata tanto negli slanci lirici quanto nella disperazione che la sospinge alla scelta finale. Appare soavemente malinconica in “la mamma morta”, tenera e piena di passione nei duetti d’amore, impaurita e dolente in “eravate possente” e nella successiva implorazione “proteggermi volete” resa con una dolcezza ed un pianissimo quasi etereo. Insomma, una interpretazione notevole per vigore psicologico , forza espressiva e voce pregevole per estensione, compattezza e controllo del fiato.

Accanto a lei, ha molto ben figurato anche il tenore Martin Muhele, dotato di una dizione di strepitosa nitidezza e dell’accento giusto per scolpire un convincente personaggio di appassionante incisività, sincerità e comunicatività. Come si sa, in questa opera, i brani che richiedono inflessioni morbide e dolci “Come un bel dì di Maggio” si alternano repentinamente ad altri con modulazioni ricche di vibrante fervore “Improvviso”; “Si, fui soldato” fino a giungere al tour di force finale in cui scansioni epicheggianti si alternano agli abbandoni estatici di “Vicino a te s’acqueta”. Sono tanti momenti cruciali dell’opera, attesi dal grande pubblico, che il cantante-attore brasiliano supera con sicurezza e generosità, esibendo un fraseggio sempre partecipe delle diverse situazioni.

Il baritono pugliese Sgura, dalla figura imponente, supera la difficile prova e, nel plasmare il complesso ruolo di Gerard, sfoggia un calore ed una drammaticità che trovano adeguata espressione e giusti accenti nella romanza “Nemico della Patria”.

A posto tutti gli altri interpreti nei ruoli di fianco con una citazione particolare per Massimiliano Chiarolla nella parte di un “Incredibile”. Applausi ripetuti e convinti, anche a scena aperta, per tutti gli artefici di questo spettacolo.