Paese che vai, esproprio che trovi. Parafrasando un vecchio modo di dire popolare, potremmo raccontare così, in poche parole, una storia che va avanti da anni. Siamo a Ruvo di Puglia. L’oggetto del contendere, nel senso letterale del termine, è un terreno, con annessi immobili, di proprietà privata, su cui il Comune ha messo gli occhi e, dal 1985, sta cercando di metterci anche le mani.

Ci sta provando, perché tra decreti temporanei poi revocati e poi nuovamente validati, ammesso che sia possibile, querele, contro querele, la storia si trascina. Non stancamente però, perché periodicamente ritorna in voga con delle novità. In questa vicenda, suo malgrado, c’entra anche un cane, un povero meticcio rimasto murato nella proprietà. Per ricostruire la vicenda nel modo più sintetico possibile, abbiamo sentito Salvatore Vilella, avvocato dei proprietari e persona ben ferrata sull’argomento.

«Per un esproprio – ci ha spiegato l’avvocato – si attua la cosidetta procedura ablativa: il Comune individua un progetto da realizzare, individua il suolo, procede con gli espropri dei suoli adottando dei decreti di occupazione temporanea, dopo di che il personale dell’ufficio tecnico del Comune entra nei suoli, ne prende possesso, redige i verbali di immissione in possesso».

«Fatto questo – prosegue – si passa alla liquidazione del suolo a vantaggio della famiglia, che può comunque fare opposizione. Questo decreto dura tre mesi, nell’arco dei quali il Comune ha l’obbligo di adottare il decreto di esproprio definitivo. Da quel momento la terra passa dal proprietario, o proprietari, nelle mani del Comune».

«Nel 1982 il Comune di Ruvo individuò la terra di Francesco Cantatore e nel 1985 adottò il decreto di occupazione temporanea – racconta l’avvocato Vilella – da quel momento i tecnici tentarono più volte di entrarne in possesso, e ci riuscirono, senza mai entrarne materialmente in possesso. Nel 1991 l’allora sindaco Berardi revocò il decreto di occupazione temporanea dicendo: “Economicamente, è più vantaggioso per il Comune chiudere qui la partita e rifarla tutta da capo, questo perché non siamo mai riuscito a estromettere il proprietario dall’interno della proprietà, anzi, lo abbiamo tutelato affinché restasse dentro”. Questa partita non è mai più stata rifatta».

«Nel 2001, sulla base di quel decreto revocato, e che quindi non esiste più – prosegue il racconto dell’avvocato – il Comune adottò il decreto di occupazione definitiva, cioè effettuò l’esproprio, ma dal 2001 ad oggi, quand’anche quell’esproprio fosse stato ancora valido, non si è mai immesso nel possesso del bene. Diciamo che è cartaceo. La durata di un esproprio è 5 anni. Il Comune ha lasciato passare appena 14 anni. Ad aprile dell’anno scorso prese un pezzo di carta e affisse alla porta del locale, una stalla con annessa aia agricola, un banale cartello: “Chiunque detenga questo locale lo rilasci immediatamente perché lo dobbiamo demolire”».

«Nel frattempo – va vanti l’avvocato Vilella – Francesco Cantatore è venuto a mancare. Gli eredi Michele, Nicoletta, Filomena, Carmela e Rocco, non potendo presentare ricorso al Tar dato che non c’è un atto dell’Amministrazione, hanno sporto querela alla Procura dicendo “Ci stanno per sottrarre la terra”».

«Passano i mesi, la Procura archivia la querela, a ottobre 2015 il Comune si presenta e con i Vigili effettua una invasione di terreni e fabbricati. Gli operai tagliano i cardini, buttano giù il portone e il Comune si immette nell’immobile, sequestrando i beni di proprietà del Cantatore, gli attrezzi agricoli custoditi nella stalla e sequestrando anche un meticcio, un povero cagnolino che si trova chiuso là dentro, alimentato oggi alla male e peggio, perché nella fretta lo hanno praticamente murato».

«In quella occasione, la moglie di Michele Cantatore, Rosanna, viene identificata come persona che detiene l’immobile e che si rifiuta di lasciarlo. Di fatto non c’è un’ordinanza del sindaco che ne impone l’immediato rilascio, né una sentenza di un giudice. Però i tecnici murano tutto. Noi a quel punto decidiamo di sporgere una nuova querela, ma la Procura non si è ancora mossa, sta nicchiando».

«E arriviamo finalmente ai giorni nostri. Ai primi di giugno l’amministrazione si è risvegliata e si è presentata con l’intenzione di ricoverare il cane e svuotare il locale, perché deve essere demolito. Peccato – evidenzia il legale – che sull’immobile gravi un vincolo di cui il Comune non vuole minimamente sentire parlare. C’è infatti la necessità, stabilita dall’Ufficio Igiene, di verificare se la tettoia sia o meno di amianto».

«Con molta nonchalance – sottolinea l’avvocato – volevano buttare giù tutto esponendo la gente a un mondo di rischi. La cosa non si è fatta perché, su mia istanza e con il Comandante dei Carabinieri, ho chiesto che fosse esibita l’ordinanza di rilascio, e non sono stati in grado. Dunque, hanno rinviato tutto».

«Per la fretta di appropriarsi di quel luogo, che dovrebbe fruttare 5 milioni di euro al Comune – conclude – siamo nella illegalità pura. Hanno fatto lavorare gli operai senza neanche le maschere di protezione, hanno tagliato i cardini con una maglietta a coprire la faccia, il flex in mano, la scala alle spalle e i Vigili sotto a mantenere un portone di qualche quintale. Siamo a livello di follia pura». Le carte sono evidenti, ma restiamo a disposizione di chiunque volesse aggiungere precisazioni in merito alla vicenda, mostrando altri documenti.