Avesse premuto il grilletto, trent’anni di carcere sarebbero stati inevitabili. Il padrino del clan a cui era affiliato Antonio aveva già parlato coi Carabinieri. Quell’omicidio sarebbe stata la sua condanna definitiva.

Convinto dai militari e senza molte alternative, Antonio, pregiudicato dedito alle rapine, ai furti e allo spaccio, accusato tra l’altro anche di detenzione di armi e riciclaggio, decide di vuotare il sacco. Entra nel programma di collaborazione di giustizia. Da 8 anni vive pagato dai cittadini italiani in una città del nord insieme alla sua famiglia.

In una grande casa, con le bollette pagate, ci sono 5 minori. Nei primi 18 mesi della sua collaborazione Antonio fa rinvenire i passamontagna, l’auto rubata per compiere l’omicidio, rivela i nomi dei complici, parla di altri crimini, poi più niente. Le sue rivelazioni non hanno alcun seguito. L’agguerrito clan a cui era affiliato continua a imperversare nel territorio del Barese.

La maggior parte delle persone citate è a piede libero, ma soprattutto Antonio l’11 gennaio saprà se potrà restare collaboratore di giustizia o se dovrà finire per strada. Il Tar deciderà sul suo ricorso alla decisione di farlo tornare “libero” senza i soldi che a suo dire gli spetterebbero per gli anni di collaborazione: l’unico modo per rifarsi una vita.

“In caso contrario, nonostante i grandi rischi per me e la mia famiglia – dice Antonio – non mi resterebbe che tornare a Bari e rimettermi a delinquere, come se nulla fosse successo. A cambiare sarebbe solo il rischio di essere accoppato, perché quella gente non dimentica”.

Il paradosso è averlo pagato 1.500 euro al mese, avergli dato una casa, provveduto al pagamento delle bollette in cambio delle sue rivelazioni, senza che queste abbiano dato alcun risultato. E dopo 8 anni riportare Antonio alle sue origini criminali, nella cittadina del Barese dove rischia la vita.