Mario Mancini era un grande attore teatrale barese, barivecchiano doc e ultimo di dieci figli. Si è spento all’età di 85 anni. Dopo il cordoglio di amici e colleghi sui social network, ecco la lettera dedicata a Mancini da Mariano Leone.

di Mariano Leone

Non so che cosa sia la baresità e non hai mai capito che cosa significasse. Ma  credo semplicemente di sapere quanto Mario amasse  Bari e vorrei ricordarlo per alcune caratteristiche che mi hanno colpito. Oltre all’attore che tutti ricordiamo era anche una persona con caratteristiche umane  non comuni.

Mario amava tutto di Bari.

Amava la sua casa dove era nato è vissuto sempre. Una casa sus, mezz e abbasc.  Su tre piani con una sola stanza per ogni piano, come si trovano nella città vecchia. In quella casa era nato e vissuto con altri 9 fratelli ed i genitori.

Si lamentava della nuova denominazione della via della sua casa: Via Roberto il Guiscardo che aveva sostituito la vecchia denominazione: la Vallisa o meglio la Vaddisa. Per delle motivazioni che appartengono solo a Mario.

La nuova denominazione era ed è impronunciabile per le  sue anziane vicine di casa. Ma Mario le consolava.

“Tu continua a dire la vaddisa tu lo sai dove sta e pure l’altr u sapene”.

Le sue vicine stravedevano per Mario. Con qualcuna, una signorina granda, era lui che provvedeva alla tintura dei capelli ed a pettinarla. Da lui ho imparato che esisteva un mestiere a Bari vecchia, la “capera”, che era una pettinatrice che andava di casa in casa a pettinare le donne.

Con Mario ho conosciuto i due fratelli rimasti scapoli  proprietari di una merceria che forniva anche indumenti intimi per le donne. Ma avevano una particolarità assegnavano  a vista le misure dei reggiseni e della biancheria intima. Mi stupiva l’arrendevolezza delle figlie alla spregiudicatezza delle madri che le accompagnavano a mostrare  ai due fratelli scapoli  le forme delle figlie per stabilirne la taglia.

Anche Mario era in grado di collaborare e di determinare a vista le taglie delle figlie che si sottraevano timide e che finivano col ridere alle sue allusione e battute.

Mario cicerone di Barivecchia.

Mario aveva una passione per il suo quartiere e conosceva tutto quello che lo circondava. Conosceva le chiese, ma anche i sacrestani ai quali chiedeva di aprire le chiese per mostrarle ai turisti. E nessuno si negava.
I turisti, ma anche noi che andavamo a trovarlo, avevano la fortuna di avere la migliore delle guide turistiche.

Faceva aprire le chiese (mè iapre, fa vedè) e mostrava la struttura delle statue dei santi fatti solo da un trespolo che veniva coperto dall’abito. Per le altre statue non presenti in chiesa provvedeva lui a mimarle.

Gesù Cristo alla cannedda, l’Addolorata, tutti i Misteri erano riprodotti da Mario. In Jarche Vasce è stata riprodotta la processione dei misteri nata su queste rappresentazioni di Mario.

 

Mario uomo di teatro.

Mario non era solo un attore, era un uomo di teatro completo. Aveva ereditato dal padre una eccezionale capacità manuale. Il padre  da artigiano raffinato aveva provveduto ai suoi studi fino all’università ma a Mario era rimasta una artigianalità infusa .

La sua capacità di passare dalla costruzione di scene in teatro ai costumi da realizzare era eccezionale. Solo  quando non aveva o non gli portavano gli attrezzi giusti lo vedevo innervosirsi.

Trovava inconcepibile confondere le tipologie di martello. Non sapere qual è il martello fiorentino e confonderlo  con altre tipologie di martello per Mario era un fatto grave che lo faceva innervosire di incredulità.

Mentre si provavano spettacoli dell’avanguardia europea (Adamov, Genet , Majakowski,  Mrozek, Albee) Mario spiegava agli attrezzisti come puntare la  “cantinella” che sosteneva la scena, come si tiene il martello in mano, come si picchia la saetta (il chiodo lungo che va obliquo al legno).

Lo stesso Mario che in una edizione delle “ Serve di Genet”  ho visto piangere preoccupato alla prima  perché entrava in scena a metà rappresentazione  vestito da donna (la padrona) con una battuta terribile da recitare: “orribili giaggioli di un giallo debilitante e mimose”.

Battuta terribile che poteva trasformare un dramma con una forte tensione già maturata  in una farsa paradossale e ridicola. Mario caricò quella battuta apparentemente insignificante  di un assoluto  svogliato disprezzo  verso le sue serve dando la chiave interpretativa  di tutta la rappresentazione. La tensione drammatica che pensavano a rischio si accentuò in una tensione alla quale poche volte ho assistito in teatro.

Mario attore dialettale.

E’ il Mario più conosciuto. Ma per chi ha lavorato con lui il dialetto era la cifra dei suoi racconti. Credo che per Mario il dialetto fosse una propaggine del suo modo di gestire i rapporti con gli altri.

Gli ho visto usare il dialetto con tutti e in tutte le occasioni. La reazione è sempre stata di simpatia e divertimento. Eravamo a New York per una replica di Jarche Jalde e ci eravamo spinti come turisti imbranati  in una zona non molto ben frequentata. Credo che eravamo in 5 persone. Avevamo percepito il disagio di un posto ostile e cercavamo di andarcene. Ci spiegarono  dopo,che non dovevamo andare lì perché era zona di una gang di afroamericani.

Una inquietante comitiva supponiamo di questa gang  si era appostata  con l’atteggiamento di aspettarci. Atteggiamento ostile ma non sapevamo se passare dall’altra parte del marciapiede denunciando la nostra vile intenzione oppure attraversare in mezzo a loro sperando di essere risparmiati.

Mario con la sua capacità di rapportarsi con tutti li  apostrofa in dialetto: “cac.(deformazione di caro) u mest (maestro)  ce sta face”. Ed inizia un dialogo in barese che lascia l’interlocutore ed i suoi compagni stupiti e divertiti.   Dopo di che  furono loro a chiedere da dove venivamo e a volerci fare vedere il loro quartiere.

 

Mario e la morte.

La prima volta che ho conosciuto Mario l’ho sentito  descrivere la pulizia del teschio di suo padre. Da allora l’ho visto più volte con un rapporto con la morte e con le salme  sano e sempre risolutivo.

Al funerale del padre di Eugenio d’Attoma  tutti vedevano che la salma non era perfettamente a posto, la mani non erano simmetriche, ma nessuno osava toccare la salma.

Arriva Mario che a voce alta dice: ”oh mettiamola a posto, non può stare cosi“. Dopo di che interviene sulle dita e sulla posizione della salma che con sollievo di tutti viene ricomposta.

Alla morte della nostra amica Francesca Castriota appena entra la ricompone, le alza la testa cambiandogli il cuscino e le mette le foto dei familiari nella tasca interna. Per tutte le occasione di funerali Mario era quello che  risolveva queste situazioni e tutti gli erano grati, a vita. La sua carica vitale trasformava le veglie funebre  in occasioni di racconti e risate , faceva  ridere tutti  ma  proprio tutti e tutti gli volevano ancora più bene.

Molti degli accadimenti di queste veglie  sono stati riprodotti nei suoi spettacoli ma forse è passata la parte comica ma non è passata la parte  di squisita umanità nei confronti dei defunti e dei loro parenti.