Il regista accompagnato da Nicolai Lilin, autore dell’omonimo romanzo autobiografico (Giulio Einaudi Editore) da cui il film è tratto, ha fatto tappa ieri a Bari per la presentazione ufficiale alla stampa al Boscolo Hotel.

Scritto a sei mani con Sandro Petraglia e Stefano Rulli, Gabriele Salvatores sintetizza in questo nuovo lavoro gran parte del suo cinema precedente: il senso dell’amicizia di Marrakech Express e Turnè, così come di quest’ultimo il perduto amore, e ancora le navi di Mediterraneo che qui non affondano, ma sembrano fuori luogo, imprigionate in una massa d’acqua gelata, fino ai killer spietati di Puerto Escondido che ora sono fazioni contrapposte: i primi in divisa con l’obiettivo di diffondere una democratica globalizzazione, i secondi caparbi difensori dell’etnia Urka e dei suoi valori, ispirati al rispetto di tutti gli esseri viventi, tranne che poliziotti, banchieri e usurai.

“Del romanzo, – dice Salvatores -, mi ha affascinato l’idea di poter raccontare un mondo lontano dal nostro, fantastico, quasi sognato, ma che indirettamente parla anche di noi”.

Ambientato in una regione del Sud della Russia nel decennio 1985-1995, segue la storia di due bambini, Kolima e Gagarin fino all’età adulta sul cui sfondo si muovono le vicende della comunità di Fiume Freddo, cappeggiata dal saggio “nonno Kuzja” (John Malkovich) i cui codici d’onore si confronteranno con cambiamenti epocali, dalla caduta del Muro di Berlino alla disgregazione finale dell’Unione Sovietica.

“Malkovich – dice il regista – è stato il primo a cui abbiamo pensato. Occorreva qualcuno che avesse l’autorità e il carisma di un maestro, ma anche una certa follia negli occhi, quella inquietudine che trapela dal suo essere anche fuori scena. Kolima e Gagarin adulti invece, interpretati rispettivamente da Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, sono due esordienti senza alcuna precedente esperienza. Li abbiamo cercati in base alla descrizione precisa che il romanzo ne faceva. Con loro ho lavorato direttamente sull’istinto e l’emozione ed è stato più facile che con gli attori professionisti a cui, invece, occorre togliere le stampelle”.

E mentre Sergio Leone aveva affidato al Manhattan Bridge il compito di vegliare sul rapimento dell’infanzia dei quattro banditelli guidati da Robert De Niro, qui palazzoni squadrati guardano dall’alto la miseria protratta all’età adulta di Kolima, Gagarin, Mel e Vitalic. L’Occidente ha liberalizzato l’alcool, ma ha subito cercato la felicità nel diniego di altri vizi: droga, soldi facili e prostituzione. Più deboli, ma non meno provocatori, una cornice fatta di jeans da moda comoda, “junk food” e musica pop che invita ad andare oltre, perché da “absolute beginners” non si ha niente da perdere. Tranne che se stessi. Sarà per questo che l’etnia di cui Lilin parla nel libro, la propria storia, se la porta sotto e sopra la pelle, tatuando simboli, messaggi e stati d’animo così da essere un libro aperto, per chi sa interpretare.

“Per me, dice lo scrittore, il tatuaggio è un linguaggio che permette di entrare in comunione profonda con l’altro, annullando gli stereotipi perché ogni vita è diversa. Al pari è il mio rapporto con le armi. E’ un modo per autodisciplinarmi. Mio nonno mi ha insegnato a sparare a 4 anni. La violenza aveva uno scopo educativo. Lui diceva: “meglio prendere uno schiaffo a 5 anni che una coltellata a 15”. Mi spaventa molto più vedere un bambino che usa la violenza, pur se in un videogioco, per puro divertimento perché non ha idea di cosa significa davvero. Sulla trasposizione del romanzo non ho mai avuto dubbi sulla perfetta riuscita”.

Nell’andirivieni del tempo del racconto filmato ritroviamo Kolima e Gagarin cresciuti, divisi da scelte e alterne fortune, ma anche a causa di un volto femminile, quello di Xenja (Eleonor Tomlinson, già attrice per Tim Burton) la figlia un po’ tarda del medico del villaggio.

Ma in quei codici inviolabili non trascritti nessuna redenzione è prevista per i criminali. Gagarin ha tradito le sue origini, una promessa, il suo amico. E potrebbe concludersi così se non fosse che, rivolgendosi a Kolima, ammette di averlo sempre pensato e immaginato bambino. Che la felicità fosse nel restare nel “qui e ora” di una giostra colorata che promette sogni nuovi o nel lasciare che il sole dell’Occidente avanzi sciogliendo gli ultimi ghiacci. In ambedue i casi qualcuno potrebbe sentire Kolima sussurrare “Io non ho paura”.

1 marzo 2013

Alessandra Nenna