A pochi passi dalla chiesa matrice di Capurso, in vico De Rosis, tra piazza Gramsci e quello che i capursesi chiamano familiarmente “U castidd”, una famiglia di tre persone vive in condizioni inimmaginabili. “L’abitazione”, una stanza di neanche 16 metri quadri, interamente occupata da un letto matrimoniale e da un tavolino, è sprovvista dei più comuni servizi utili alle necessità quotidiane.

Acqua corrente, energia elettrica e bagno sono un sogno lontano per questo piccolo nucleo familiare. Il locale appartiene al Comune che, tempo fa, lo ha messo provvisoriamente a disposizione della famiglia. Ma la temporaneità, per la 52enne Raffaella Campagna, il convivente e il figlio – tutti disoccupati – si  è trasformata in solida consuetudine. La donna, costretta da oltre dieci anni a caricarsi sulle spalle, estate e inverno, taniche d’acqua per soddisfare i bisogni primari della famiglia, minaccia di farla finita.

Senza parlare della questione igienico sanitaria da terzo mondo. La signora è obbligata a raccogliere reflui domestici e, soprattutto, organici in vaschette di plastica,  per buttarli nel vicino chiusino fognario. La donna, rimasta vedova con tre figli, senza pensione di reversibilità – il marito lavorava a nero –  dopo essere stata ospitata per un lungo periodo da alcuni parenti, si è ritrovata a vivere in strada, spesso sotto il porticato della stazione del paese.

Così ha deciso di chiedere aiuto al Comune che le ha offerto quello che inizialmente doveva essere un “rifugio” temporaneo. Ma la realtà ci consegna altre immagini: una situazione di precarietà, degrado e miseria assoluta, che non sembra trovare, ai giorni nostri, e dopo dieci anni, una soluzione dignitosa per tutti. Anche il vicinato, infatti, pur continuando a essere solidale verso queste persone, si lamenta dell’inadempienza e, a dir loro, dell’indifferenza del Comune.

Raffaella comunque continua instancabile a lanciare appelli – a suo dire inascoltati – che assumono sempre più toni drammatici e preoccupanti. Non è possibile tollerare oltre. Né accettare questa realtà ormai tanto diffusa e troppo sbrigativamente etichettata – e raccontata – come miserabile o difficile. Quasi ci fossimo convinti a riconoscerla come un’ulteriore modalità di vita. È evidente, però, che di tutto si può parlare, tranne che di vita.