Stai lavorando al tuo secondo disco, dopo oltre 10 anni dal primo: perché così tanto tempo? Sentivi di non avere cose da dire?
“No, assolutamente, non è questo. Come materiale canoro potrei riempire diversi dischi, questo allungamento dei tempi è dovuto a tutta una serie di situazioni collaterali, tra cui alcuni problemi editoriali con l’etichetta che ha pubblicato il primo disco. Poi, un po’ il lavoro, mio e degli altri, che sottrae energie, ha determinato questo allungamento dei tempi, per cui una cosa semplice come la registrazione di un disco è diventata un’impresa”.

Semplice tra virgolette…
“Si ovviamente -ride- unito anche all’esigenza di provare altre forme espressive, come la scrittura in senso stretto. Tutta una serie di situazioni…”

…altri interessi?
“La musica è sempre stata al primo posto, però la vita si mette in mezzo, e poi siamo al sud, i tempi sono molto più dilatati” sorride.

A questo album ha collaborato un certo Michele Salvemini…
“Caparezza ha arrangiato un brano, L’uomo assente, tre o quattro anni fa quando il disco avrebbe dovuto vedere la luce, è stato molto disponibile. Circa altre forme di collaborazione, all’epoca ne avevamo parlato, mi riservo di aspettare il master. Nel disco ci sono una serie di ritratti, personaggi che hanno un rapporto ambivalente col mondo: uno spaventapasseri che vuole sottrarsi al suo destino… un grillo che racconta di aver assisto ad un omicidio…l’uomo assente…sono brani che ho sedimentato negli anni, hanno anche tempi di composizione nel tempo leggermente diversi tra loro. Sono stato fermo discograficamente tanto tempo, ma ho sempre continuato a scrivere canzoni per cui materiale c’è, come pure l’esigenza mia di far sentire quello che ho da dire”.

Che tipo di album si aspetta secondo te chi già ti conosce?
“Forse si aspetta un disco diverso da quello che sta per venire fuori, forse più simile al precedente, di matrice spiccatamente folk-rock. Troverà qualcosa di diverso”.

Musicalmente ti si può definire un autore impegnato? O il ’68 è morto da un pezzo secondo te?
“Il ’68 è morto da un pezzo, ovviamente, anche se i semi gettati allora continuano a germogliare, però no…io canto e scrivo ciò che sento, sono uno che si guarda attorno, quello che mi colpisce entra in circolo e poi viene fuori in forma canzone, però come hai visto, il brano che ho suonato oggi si discosta da questa chiave impegnata. Seguendo questa etichetta, nel nuovo disco ci sono molti brani che potrebbero essere definiti impegnati, perché raccontano il quotidiano turbolento che stiamo vivendo”.

Turbolento è un termine…diplomatico…
“…un eufemismo” ride amaramente.

Sei autore anche di libri: le due forme di scrittura sono paragonabili in qualche modo? Hanno qualcosa in comune o sono più le differenze secondo te?
“Hanno punti in comune e notevoli differenze. In comune è che nascono da una esigenze espressiva che deve venire fuori in qualche modo. Ovviamente sono medium diversissimi tra di loro, anche se, nella mia espressione musicale, ho sempre prestato molta attenzione al testo pur lasciandolo in genere così come viene, con le sozzure del parto citando Kafka, raramente torno a lavorare di cesello dopo. La canzone in qualche modo è più vincolante, ho scoperto che la scrittura vera e propria mi rende più libero, sono meno legato alla forma-canzone. Infatti La Ballata dei Raminghi Adirati è un testo piuttosto sperimentale, che cerca in qualche modo di includere i suoni a cui sono legato, adopero un linguaggio inclusivo, nel senso che cerco di metabolizzare nel testo scritto anche certe interferenze ambientali”.

Quindi c’è musica nei tuoi libri…
“Assolutamente, entrambi risentono della mia attitudine, sono concepiti quasi come fossero un’opera musicale, un arrangiamento, c’è un inizio, un climax e una chiusura. In tutti e due i testi ho cercato di usare le parole anche per il suono che hanno”.

Tra le altre cose lavori come operatore socio-sanitario, hai messo in scena una tua opera con attori tutti diversamente abili. Quanto la musica aiuta in questi contesti?
“Tantissimo, è fondamentale. La musica è uno strumento di comunicazione che ha pochissime barriere, viene percepito da tutti, è eccezionale l’incidenza che la musica può avere su certe persone, a prescindere dall’aspetto terapeutico, apre tutte le porte. Ricordo per esempio una ragazzina autistica, non parlava, stava sempre per conto suo, quando poi io suonavo la chitarra mi saliva addosso per annusarmi, aveva l’olfatto come strumento di conoscenza e lo faceva ogni volta che mi mettevo a suonare, altrimenti non esistevo proprio nel suo campo visivo”.

Sei nato a Taranto ma ti definisci barese di adozione, città che in qualche modo hanno sempre mostrato una certa rivalità. La musica ti ha aiutato nel percorso di integrazione? È uno strumenti di avvicinamento secondo te?
“Di integrazione si, ma anche di autodeterminazione per quanto mi riguarda…

…ovvero?
“Io scrivevo canzoni anche prima di trasferirmi, Taranto è una città che ha storicamente tantissimi problemi, il periodo in cui ci ho vissuto, fine anni ’80 gli anni del riflusso, era un po’ refrattaria, dal punto di vista della vita culturale della città, a dare spazio a certe energie locali che venivano fuori. Spazio che invece ho trovato da subito venendo a Bari. La risposta che mi sono dato, così, velocemente, è il tessuto universitario che Bari ha, storicamente e strutturalmente rispetto a Taranto. Paradossalmente, forse proprio la crisi sta facendo risorgere la città, perché mentre la mia generazione andava via e non tornava più, ora per motivi economici chi se ne va poi torna a casa, portando con se’ un bagaglio nuovo di esperienze che fa sicuramente bene. Tornando alla domanda, sicuramente la musica è uno strumento di integrazione, di avvicinamento, a me sicuramente ha dato un’identità precisa da subito, ed è un notevole punto di partenza”.

Identità richiama il concetto di radici, allora c’è un posto dove ti senti a casa?
“Taranto ha sicuramente condizionato il mio immaginario. È sicuramente presente, anche se non è nominata, quando mi trovo a raccontare in musica o per iscritto qualcosa che mi riguarda, dal punto di vista proprio del paesaggio fisico, caratterizzato dalle fiamme dell’Ilva che danno un tono quasi alla Blade Runner al tutto. Bari si è innestata in questo scenario, creando un ibrido dei due poli, e faccio sempre più fatica a distinguere ciò che è dell’una e ciò che è dell’altra, proprio da un punto di vista culturale”.

Un po’ quello che succede per via della glocalizzazione…
“Sulla questione della contaminazione del linguaggio ho una mia idea precisa, ritengo che, per svariati motivi, ci prendano per i fondelli, da tutti i punti di vista”.

In che senso?
“Prendi la questione tarantina, per esempio, salita agli altari della cronaca dell’ultimo periodo. Si usa parlare di diritto alla salute e diritto al lavoro come se fossero due entità separabili, sortendo l’effetto di seminare un po’ di zizzagna nella città, mettendo gli ambientalisti contro i dipendenti della fabbrica e così non dovrebbe essere. Mai come in questo periodo, in cui c’è ridondanza di informazioni, c’è un uso doloso del linguaggio, mirando a destrutturarlo con i mezzi di comunicazione di massa, perché significa costruire, costituire, persone meno avvezze a riflettere più a fondo. Noi lo diamo per scontato, ma il linguaggio è un’arma potentissima: più è ricco di sfumature, più è ricca la conoscenza di chi possiede quelle sfumature. Destrutturare il linguaggio significa perdere una buona parte della nostra forza espressiva e vitale, perché checché se ne dica, noi comunichiamo con le parole, Per citare Moretti, le parole sono importanti”.

Daniele Di Maglie su facebook