Nella scheda di presentazione del disco si legge: Banjara è l’ode personale degli Almoraima al duende. Iniziamo da qui, cos’è il duende?
“Il duende è una forza ispiratrice che arriva sempre quando meno te lo aspetti. La senti, quando è arrivata, perché mentre stai suonando sei come spinto dal vento e ti senti in qualche modo ispirato, ti spinge a suonare quello che sei senza tanti limiti, liberamente”.

Una specie di energia interiore…
“…che arriva dall’esterno in realtà, mentre stai suonando, o magari studiando, e premette di esprimerti come fossi su un’onda. È stimolante, ha una freschezza tutta sua, e senti la differenza rispetto a quando stai suonando in maniera…più razionale diciamo, un po’ più meccanica ecco. È bellissimo quando ti prende”.

Quindi il disco è questo alla fine?
“Quello che vogliamo esprimere è questo”.

Gli Almoraima hanno nel dna, diciamo così, la propensione a mescolare culture diverse. La cosa è evidente già dalle origini dei musicisti che ne fanno parte. Allora questa tendenza è un fatto naturale, o è figlio di una precisa volontà?
“Tutte e due le cose. C’è stato inizialmente un lavoro di ricerca che continua ancora oggi verso certe sonorità, flamenco soprattutto. L’aver condiviso con musicisti non proprio della mia zona, ha fatto si che ognuno portasse un sound e un sentire, che fuso insieme, ha dato vita a quello che oggi è Almoraima. Sonorità che si attengono soprattutto al flamenco, alla musica araba e ultimamente anche orientale, del Rajasthan dove siamo stati”.

Il gruppo fa base in Salento, che però non sembra essere inserito, musicalmente parlando, nelle sonorità della band. In apparenza, si tratta di una contraddizione in termini…
“Sì, sì, è la verità. I musicisti sono del luogo, ma sono tutte persone che hanno fatto una ricerca musicale verso sonorità mediorientali, come Roberto e Saleem, Antonio viene dalla Camargue e porta del suo, per cui in realtà col Salento abbiamo ben poco da condividere -sorride- io sono nato a Losanna e mi sono trasferito giù a 8 anni perché i miei genitori sono di là. In Svizzera ho vissuto in un quartiere abitato da spagnoli e molto spesso capitavano, nei fine settimana, feste e ritrovi in cui qualcuno suonava, cantava…questo mi è rimasto. Quando mi sono approcciato alla chitarra, anche inconsapevolmente, sono andato in quella direzione. Ci ho messo un po’ a capire che suono stavo ricercando, anche dallo strumento, quando poi l’ho capito, ho seguito un percorso di ricerca che mi ha portato a studiare e a suonare con dei musicisti che in qualche modo andavano verso quel sound”.

Cosa porta dei musicisti salentini a ritrovarsi, musicalmente parlando, con un cantante dalla Camargue, o un violista pakistano…come si arriva ad una formazione veramente multietnica?
“C’è sempre un filo conduttore. Antonio ha vissuto in una comunità di gitani, quando abbiamo suonato la prima volta sembrava ci conoscessimo da sempre, anche con Saleem ci siamo trovati prima di tutto musicalmente, aveva già una sua ricerca in questa direzione, per cui c’è una connessione tra tutti noi. E poi c’è sempre stata la voglia da parte mia, anche per crescere, di condividere esperienze con musicisti che provengono da realtà e da culture diverse. Siamo un po’ in linea coi tempi, viviamo tutti con persone che provengono da ogni parte del mondo, c’è una fusione tra culture molto spesso bellissima”.

In un mondo in cui global è diventato un’offesa ed è stato sostituito da glocal, come si colloca un gruppo multietnico che si diverte a mischiare le carte continuamente?
“Bella domanda…in qualche modo, appunto, rispecchiamo un po’ la realtà di ogni giorno…come si colloca…puoi essere un po’ più preciso?”

In effetti la vera domanda è un’altra: qual è il destino delle prossime generazioni, mescolarsi mantenendo le proprie origini pur perdendone sempre un po’ per via di questa influenza reciproca continua?
“Credo che sia naturale, nelle scuole almeno il 50% delle persone viene da altre culture, quindi se da un lato ci spingiamo verso le nostre radici, dall’altro siamo obbligati ad aprirci al nuovo, perché è lì alle porte e ci parla. Credo sia un bel passo questo, con tutti i limiti che ci possono essere dallo stare insieme, dal cercare un equilibrio”.

E non è questa un’altra contraddizione in termini, giusto per chiudere il cerchio iniziale, perché se ragioniamo sul lungo periodo, avremo acquisito tutti quanti degli elementi distanti da noi…
“Certo. Pur volendolo negare, credo che chiunque venga influenzato in qualche modo. Volenti o nolenti, la strada ci porta ad un incontro di culture”.

La vostra è etichettata come world music, che attinge quindi dalla tradizione popolare. Sia in questo che nel primo album, proponete anche il vostro repertorio originale. Con un po’ di ironia, non sarà per caso che le tournée all’estero servono proprio per cercare sempre nuovi stimoli?
“Indubbiamente. Chiaramente si va per presentare il proprio, per condividerlo, va da se’ che comunque veniamo influenzati, ma è una scelta”.

Allora se tanto mi da tanto, sono curioso di vedere come tornerete cambiati dalla tournée in Canada..
“Non avremo molto tempo, andiamo per un festival arabo per cui il contesto è quello, però credo che ogni posto accresce il vissuto, l’esperienza, l’ispirazione…quindi…no so cosa potrà accadere”.

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Lineup:
Massi Almoraima: chitarra flamenco, oud, palmas
Roberto Chiga: cajon, daf, tar, darbuka, riqq, cavigliere, palmas
Saleem Anichini: viola
Angelo Urso: contrabbasso
Antonio Corba: voce, chitarra ritmica, palmas