Fare l’addetto stampa non è meglio che lavorare così, come per fare il medico non basta andare su Wikipedia. In entrambi i casi si studia (per il medico molto di più), ci si impegna, si fanno sacrifici e questo basta per pretendere rispetto ed essere pagati.

Di avviso diverso è Rosita Orlandi, docente universitario e presidente della (Federazione Pugliese Donatori di Sangue), aderente alla FIDAS. Un addetto stampa non deve essere pagato, ma avere un rimborso spese.

Ma facciamo un passo indietro per capire la storia. Tutto parte da quando la FPDS-FIDAS indice un bando di concorso per un addetto stampa. I compiti da svolgere sono vari e l’impegno è articolato, gravoso in termini di tempo. Si richiede la laurea in scienze della comunicazione e/o esperienza biennale nel settore. Per partecipare bisogna mandare un curriculum, un’autocertificazione del titolo di studio ed un piano d’azione biennale. Non viene fatto alcun riferimento ad eventuali compensi, ma il passaggio: “tenuto conto della natura volontaristica dell’Associazione di riferimento”, lascia aperta la possibilità del “gratis”.

Partecipiamo, omettendo volutamente il mio titolo accademico (laurea con lode in comunicazione conseguita nel 2004), ma la mia esperienza nel mondo della comunicazione è più che biennale e questo dovrebbe bastare, anche per capire le intenzioni della FPDS.

Allego il curriculum ed un progetto d’azione molto articolato, che si conclude con la specificazione di quanto sarei costato in termini di stipendio con un contratto a progetto. La risposta della presidente Orlandi non tarda: “Nonostante la sua importante esperienza nel settore della comunicazione, però, lei non potrà partecipare al colloquio per la selezione, in quanto il suo titolo di studio non corrisponde a quanto richiesto nel bando”.

Qui la prima falla, perché quel “e/o” in italiano ha un peso, ma ci scorre addosso perché la seconda parte è peggiore. “Le faccio inoltre presente che per il momento non è intenzione dell’Associazione stabilire con l’eventuale vincitore del concorso un rapporto lavorativo che comporti un compenso, ma solo un rimborso spese”. Quanto scrive è offensivo nel confronti della professione del giornalista.

Fare giornalismo è come comunicare una diagnosi (restiamo in tema medico), ci sono delle responsabilità in quello che si dice, bisogna pesare le parole, bisogna saperle usare giuste altrimenti c’è il rischio di mandare tutto in malora, di rendere vano quello che si vuole dire o che si è fatto e non essere pagati vuol dire vanificare gli studi, gli impegni, i sacrifici di chi vuole fare il giornalista, di chi fa il giornalista, come se la professoressa Orlandi non ricevesse nulla per la sua attività di docente.

Fermo restando che forse, come presidente della FPDS-FIDAS, non percepisce compensi ma sicuramente l’impegno è differente dall’addetto stampa, impegnato giornalmente per avere buoni rapporti con i media, scrivere un comunicato o un articolo, informarsi sull’attività dell’associazione e mille altre cose che richiedono impegno.

Siamo alle solite, si sottovaluta il lavoro del giornalista e forse il lavoro in generale, perché non si può pretendere a monte di molti vincoli e richieste, che qualcuno ricopra un ruolo importante con un semplice rimborso spese. Si umilia la persona, si umilia il suo impegno e si umilia il suo operato, perché a questo punto basta chiamare un ragazzino del liceo che due parole in fila sa metterle, meglio sarebbe affidare il compito a qualcuno che è già volontario dell’associazione, meglio se studente universitario, docente.

E non è una giustificazione la natura volontaristica dell’associazione, perché di sicuro non va avanti senza fondi: nelle vetture va la stessa benzina che mettiamo noi nella macchina ed il pane che comprano è lo stesso che compra un giornalista: costa uguale.

Cosa diranno ai candidati il prossimo 16 marzo durante i colloqui? Che lavoreranno per una buona causa? Che potranno mettere questa esperienza nel curriculum? Che si apriranno futuri orizzonti? Perché non dirgli che concorreranno anche loro a spingere la professione del giornalista giù dalla rupe Tarpea e che magari gli anni di studio e la laurea possono anche chiuderla in un cassetto? Dire che possono buttarla nel cesso è poco giornalistico, ma sicuramente appropriato.