Mi hanno aggredito e promesso una brutta morte, danneggiato l’attrezzatura, consegnato regali indesiderati o scritto di guardarmi intorno e fare attenzione perché sanno dove abito. In tutti i casi i mittenti erano persone che ritenevano di aver subito un torto dai miei racconti. Persone “comuni”, se così possono essere definite, sicuramente senza un preciso dovere nei confronti dello Stato.

Se a minacciarti di morte è un uomo in divisa, però, cambia radicalmente la prospettiva. Sono passate alcune settimane dal fatto, ma vedo che in queste ore botte e minacce riservate a due colleghi hanno fatto riaccendere il dibattito. Un poco di gloria e sostegno prima dell’oblio, magari un flash mob alla memoria.

Se a minacciarti è un uomo in divisa, ti crolla il mondo addosso. Nemmeno uno che ne ha viste di tutti i colori sa esattamente che fare, seppure in cuor tuo sei consapevole che la denuncia sarebbe l’unica strada. Se a minacciarti di morte quell’uomo in divisa non è solo, ma si fa forza con appresso uno che “appartiene”, allora è la fine. Game over.

Ti senti smarrito, la paura diventa alienazione. In un attimo tutte le certezze vanno a farsi fottere e allora ripensi al guaio in cui sei andato a ficcarti senza averne la benché minima idea. Minacciato pesantemente da chi dovrebbe tutelarti, anche se non gli stai simpatico, “solo” per aver fatto il mio lavoro. Solo per aver denunciato un comportamento indegno, proprio così.

Per la prima volta non saprete i particolari della vicenda. Ho deciso di fermarmi a riflettere. Non è un comportamento coerente con i messaggi che diffondo tutti i giorni, lo so, ma noi bistrattati cronisti di provincia, quelli che non scrivono solo comunicati e veline diffuse in decine di gruppi whatsapp, non abbiamo scorte e nemmeno santi nell’inferno di certe roccaforti. Le notizie ce le prendiamo per strada e quello resterà per sempre il nostro teatro di guerra, perché di questo si tratta. Una guerra tra cultura e ignoranza, metodo mafioso e civiltà, bene comune e interessi personali.

Una lotta continua alla ricerca dell’equilibrio fra un “trimone” e un “carnevale”, perché le mazzate ce le meritiamo, almeno stando al sentire comune di una società sempre meno democratica. Su quelle strade senza santi si può incontrare chiunque, anche quell’uomo in divisa e il suo amico che appartiene. Scrivo per esprimere la mia solidarietà a ogni singolo collega costretto a vivere situazioni analoghe e a qualunque tutore della legge rispetti a caro prezzo la divisa che indossa. Ne conosco tanti, sono la maggior parte. Hanno la mia stima, perché fare la cosa giusta non è quasi mai la decisione più facile da prendere.