La caposala ammette di aver sbagliato a godere degli effetti di un intervento di chirurgia estetica utilizzando personale e strutture pubbliche, ne paga le conseguenze con 45 giorni di sospensione e un risarcimento, poi finisce al centro di un’indagine della magistratura e di quella interna alla Asl, ma nonostante tutto avverte l’impulso di querelarmi pur essendoci limitati a raccontare i fatti.

È la sintesi della storia che vede protagonista me e il Quotidiano Italiano, in contrapposizione all’infermiera caposala del blocco operatorio dell’ospedale barese Di Venere. La dottoressa Antonella Cafagna, dell’ufficio Gip-Gup del Tribunale di Bari, ha archiviato la denuncia, nonostante Maria Marmo abbia fatto opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. I nostri legali stanno per questo valutando la possibilità di un risarcimento delle spese legali e per il danno che il comportamento temerario della caposala ha arrecato a me personalmente e a tutto il Quotidiano Italiano.

“Nel servizio giornalistico – scrive il magistrato – il giornalista riferiva che la Marmo si era servita degli strumenti, dei farmaci e del personale infermieristico a servizio dell’ospedale per sottoporsi a un intervento di blefaroplastica (palpebra cadente ndr.) eseguito in data 16.2.2018 dal dottor Francesco Curatoli”. Insomma, il classico cattivo esempio di soldi pubblici usati per il conseguimento di un beneficio personale.

“L’opposizione è inammissibile”, è stato sentenziato, con alcuni passaggi particolarmente interessanti, che sottolineano la temerarietà della querela. “L’effettiva sottoposizione della Marmo all’intervento di chirurgia estetica di cui all’articolo incriminato a firma di Loconte Antonio e riportante le dichiarazioni di Lestingi Luigi (della direzione sanitaria dell’ospedale ndr.), risulta infatti dalle stesse dichiarazioni della Marmo”. Sì avete letto bene. Ad ammettere quanto accaduto e denunciato nell’articolo, è stata la stessa caposala del Di Venere.

“A tal riguardo – si legge nell’atto – si osserva che la Marmo, non solo nell’ambito del procedimento disciplinare a suo carico ammetteva espressamente di aver tenuto una condotta errata, concordando una sanzione disciplinare di sospensione di 45 giorni, ma in riscontro alla nota protocollo n. 201515 del 19.7.2018, con missiva del 26.7.2018 indirizzata al Direttore dell’U.O.C. di anestesia e rianimazione (dottor Riccardo Pagliarulo), dichiarava di aver richiesto lei stessa l’intervento minicorrettivo palpebrale al dottor Curatoli, scusandosi per aver utilizzato impropriamente i beni strumentali per fini non istituzionali e impegnandosi a rimborsare alla Asl il valore dei dispositivi e dei farmaci impiegati per l’intervento”.

Come se non bastasse, il giudice rileva che: “Non solo l’articolo risulta rispettoso dei requisiti della continenza espositiva e dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia ivi esposta (riguardo l’utilizzo di una struttura sanitaria per fini non istituzionali), ma anche della verità del fatto narrato, attesa la sostanziale concordanza tra i fatti accaduti e la loro rappresentazione giornalistica. Inoltre il Loconte si è limitato a descrivere il contenuto al solo scopo di mettere il pubblico dei lettori al corrente di indagini da parte della magistratura e di approfondimenti da parte dell’amministrazione sanitaria, riportando a tal fine anche le dichiarazioni del Lestingi. Pertanto, anche in tale prospettiva, la falsità del contenuto dell’articolo deve ritenersi esclusa, atteso che, al momento della sua pubblicazione, da un lato pendeva a carico della Marmo un procedimento disciplinare e, dall’altro, erano effettivamente in corso indagini a cura della magistratura”.

Senza contare che a sollevare il caso era stato il sindacato USPPI. In Italia, e Bari non fa eccezione, la querela facile nei confronti dei giornalisti sta diventando un problema che alla lunga limiterà la libertà dell’informazione.