Michele, caro amico oltre che validissimo collega, non me ne vorrai se rilancio un tuo recente post su Facebook. Sono sicuro che in cuor tuo lo hai scritto anche perché fosse un monito, per chi come noi è costretto a non fermarsi mai a causa del mestiere che ci siamo scelti e per questo fottutissimo mercato del lavoro stretto tra la realtà e le chiacchiere che tentano di propinarci.

Lavorare, lavorare e ancora lavorare, fino a sedici ore al giorno per far vivere decentemente la tua famiglia, la tua roccaforte. Una vita a rincorrere la notizia, appostati e con gli occhi aperti in attesa che succeda qualcosa, con la speranza di essere i primi a raccontarla. E poi costretti a ritornarci su quella storia, per approfondirla, analizzarla e continuare a raccontara. La presentazione di un libro, la moderazione di un convegno, l’inchiesta, un’altra collaborazione, la fonte da incontrare, i rimpianti, il pensiero a chi se non lavori non mangia, la diretta, l’intervista, l’aggiornamento obbligatorio, la querela, un ufficio stampa, la trasferta per l’emittente nazionale, il senso di colpa, l’aereo, ladisperazione di un uomo, il montaggio, gli ottocento chilonetri alla guida in un giorno solo manco fossi un agente di commercio, il telefono bollente e la batteria perennemente a terra. Sempre connessi con gli altri, quasi mai con se stessi.

A vent’anni si può fare tutto, anche non dormire. Ma quando di anni ne hai trenta e ti scopri ancora precario costretto a sgobbare, qualcosa in più la capisci. Sì, perché se non lavori muori di fame. E tutto ciò può persino non bastare perché non sempre il lavoro paga abbastanza. Ed eccoci qua, alle soglie dei quarant’anni a darti ragione Michele. Per quanti buoni propositi si possano fare è quasi mezzanotte e sono ancora al computer. Abbiamo poco tempo per la mia famiglia, figuriamoci per la salute, che ormai siamo costretti a svendere per il pezzo di pane. Non posso neppure promettermi di andare a dormire adesso, perché devo scrivere un altro paio di pezzi. E domani sveglia alle cinque per ricominciare, con la speranza di non avere un coccolone. Tanto per ora ho appena 40 anni. Un altro amico se ne va a puttane. Rimettiti presto e che quanto successo ti sia di lezione, mi sia di lezione.

LA LETTERA DI MICHELE –  Oggi devo fare due ringraziamenti. Nell’arco di pochi giorni il mio cuore è andato fuori giri e ho dovuto fare ricorso per due volte al pronto soccorso, la prima al Policlinico di Bari, la seconda a Taranto, in ambulanza dallo stadio Iacovone al Ss. Annunziata. Entrare al primo soccorso in codice rosso è un’esperienza che ti fa immediatamente riflettere sul nostro vivere quotidiano, con tanti, troppi stress lavorativi che in parte subiamo e forse il più delle volte ci cerchiamo per guadagno, carriera, soddisfazione personale.

E la conclusione non può che essere il ripromettersi di cambiare modus vivendi. E via con i buoni propositi: da domani lavoro di meno, faccio attenzione alla dieta, orari regolari, devo fare un po’ di attività fisica, e tante altre banalità. Col cavolo che si riesce a realizzarne neanche uno di questi propositi senza un angelo custode in carne ed ossa che ti controlli, ti riprenda e talvolta ti costringa alle buone pratiche di vita. Io sono fortunato, da 25 anni ne ho uno sempre con me: mia moglie. A lei devo tanto e da domani dovrò sempre di più!

Un grazie enorme a questa donna eccezionale per quanto fa per me. Il secondo ringraziamento devo farlo agli operatori della sanità pugliese. Dev’essere molto difficile lavorare nel front-end di un ospedale, specie in puglia. Scarsi i mezzi e le risorse a disposizione, sempre in pochi a servire un’utenza spesso poco rispettosa sia dei medici che degli altri bisognosi di cure, e turni massacranti. Eppure, ho trovato persone molto impegnate, quasi innamorate del loro lavoro. A tutti i livelli, dagli ausiliari ai volontari del 118, dagli infermieri ai medici, sono stato trattato con grandi disponibilità, umanità e competenza.

Un grazie particolare lo devo agli operatori tarantini, che si son presi cura di me sempre col sorriso sulle labbra, facendomi sentire sin dal primo momento protetto e coccolato come se fossi un loro vecchio amico. Forse l’essere sanitari in una città incredibilmente penalizzata anche sul piano ospedaliero li rende “speciali”. Con me speciali lo sono stati, quindi al grazie aggiungo un applauso.