Più del pesce, di dubbia provenianza e tenuto in ambienti poco salubri come scritto in un comunicato ufficiale della Guardia Costiera, a puzzare di marcio è quanto successo dopo la divulgazione della notizia, che devi necessariamente pubblicare per evitare di darla in pasto al lettore quando ormai l’ha già digerita. Così come tante altre testate locali, anche noi ci siamo limitati a riportare in maniera pedissequa, mettendo tutto in un italiano più comprensibile, quanto scritto da chi aveva fatto il blitz nel ristorante giapponese del centro cittadino, trovando prodotti e ambienti in condizioni allarmanti. Insomma, una fonte diretta.

A quel punto si è scatenato il finimondo. Si sono allarmati i consumatori, sono insorti i ristoratori e i guru della comunicazione. Qual è il nome del ristorante? Perché dare una notizia incompleta? Che notizia è senza il nome del ristorante? Che razza di giornalisti siete? Possibile vendersi in questo modo per un click? Ci siamo affannati a pubblicare le smentite di Shodai e Taku, corsi ai ripari perché preoccupati per la propria immagine, ma soprattutto abbiamo passato il resto della giornata a tentare di conoscere il nome del ristorante da “fonti attendibili”. Il tutto continuando a rispondere a centinaia di messaggi inviati da preoccupati frequentatori dei ristoranti giapponesi della città.

Abbiamo provato, senza riuscirci, a sapere quale fosse il ristoratore al quale era stata elevata la multa da 17mila euro – senza tra l’altro essere stato chiuso – anche nei gironi successivi. Niente di niente. Bocche cucite per quell’ipocrisia tutta italiana di non ledere l’immagine del ristorante incriminato. Vuoi mettere i posti di lavoro a rischio? Tutto ciò mentre l’indignazione popolare aumentava e tuttora continua. A quel punto a indignarci siamo stati noi, presi a pesci avariati in faccia, perché incapaci di dare quel maledetto nome. D’altro canto, però, non potevamo certo inventarcelo.

Le tre notizie sulla faccenda hanno totalizzato più di 100mila visualizzazioni (senza che questo abbia portato nelle nostre tasche immani fortune per i click accumulati) e sui social è iniziata la caccia al giornalista, invitando i ristoratori estranei ai fatti a querelarci. Lo stesso invito a scagliarsi contro quei giornalai che hanno dato la notizia è stato pubblicato anche sulla pagina Facebook di un noto magistrato barese, quello che nella campagna elettorale come candidato sindaco della città cercava gli stessi giornalai per diffondere presto le sue argomentazioni. Siamo impazziti tutti. Pretendiamo notizie vecchie fin dal momento della loro pubblicazione, ma anche approfondite e dettagliate.

A quel punto, mentre il pesce e la notizia sul sequestro e la multa erano già state abbandantemente digerite, abbiamo scelto di fare come facevano i nostri maestri prima dell’era digitale. Ci siamo messi sulle tracce del ristorante. Fisicamente, girando le sette chiese. Devi tenere conto degli orai di apertura, dei giorni di riposo e del fatto che per qualche spicciolo devi pubblicare altre notizie, approfondire certe questioni, cercare altri nomi. Dopo qualche giorno, senza che nessuno avesse provveduto a rendere noto quel maledetto nome, abbiamo scoperto che si tratta di Sakura, al civico 219 di Corso Cavour, effettivamente nel pieno centro cittadino. Siamo andati dal titolare, che non si è sottratto alle nostre domande, facendoci accomodare anche in cucina. Intanto la notizia è andata a farsi benedire.

E qui arriva il nocciolo della questione, l’appello a tutte le forze dell’ordine e di polizia, le nostre fonti che procedono a sequestri nel settore della sicurezza alimentare e dell’igiene pubblica. Viviamo nell’era digitale, che non consente pause e riflessioni – seppure noi abbiamo scelto di prendercele frequentemente allestendo come si faceva un tempo inchieste e reportage impegnativi e poco seguiti. Sì, perché diciamocela tutta la verità: l’articolo con un video di pochi secondi con un pirla qualunque che dice una fesseria o fa una sciocchezza sarà certamente più letto e visto di un’inchiesta sui mali del 118, sull’abbandono del Porto di Bari, sull’efficacia della nuova telecardiologia pubblica o sulle scuole usate a proprio piacimento da certi dirigenti; persino più delle mazzette al Petruzzelli, arrivate dopo tre anni di autentico lavoro giornalistico.

Ed ecco l’invito: se non potete riferire il nome del ristorante, pescheria, bar, pizzeria, supermercato, azienda, beccati con formaggi, carni, pesci, salumi e qualsiasi altro alimento adulterato, non diffondentela neppure la notizia. Il cliente scoprirà nell’intimo del suo bagno o in una stanza di ospedale, speriamo non al cimitero, che in quel posto non ci deve più andare. Sarà morto, ma avrete salvaguardato l’immagine del ristorante dall’ipotesi che abbiate commesso un errore. Se proprio non li volete dare i nomi di chi bara, fateceli arrivare diversamente, perché tanto il gioco preferito oggi è quello di querelare i giornalisti senza neppure una ragione specifica. Così, tanto per farlo. In caso contrario, nell’era digitale del voglio tutto e subito, sarete responsabili di procurare un inutile allarmismo tra i consumatori e creare danni d’immagine ed economici tra i colleghi commercianti di luridi e furbetti, rendendo noi vostri complici.