L’entusiasmo dei tifosi, la passione della curva, l’irrazionale amore senza se e senza ma di una città intera (e la fortuna) non sono mai bastati, nemmeno ai grossi club, a evitare disastri se non c’era la qualità, il talento, l’esperienza. Adesso non ci sono alibi e a pagare sarà uno dei tanti, troppi raccomandati mediocri che circondano la presidenza del Bari. L’allenatore se ne va, ma i dubbi e le perplessità restano tutte.

Gianluca Paparesta ha voluto probabilmente fare le nozze con i fichi secchi, le mezze frasi e i misteri di Pulcinella. E ha illuso tutti. Non è tardi per evitare la retrocessione ma adesso i soldi da scucire per rimediare ai disastri devono uscire per forza e non saranno pochi. Adesso i soci “occulti” se ci sono, devono palesarsi. Adesso bisogna fare un bel discorso a una città incarognita da trent’anni di matarresismo spinto che sperava nel principe azzurro targato mediaset.

E invece, la classe imprenditoriale barese che si occupa di calcio in fondo sembra soffrire dello stesso male, della stessa sindrome di miseria e nobiltà che poi genera solo mediocrità e scontento. Perché qui il problema non è solo tecnico, non è solo per colpa di un allenatore discusso e discutibile preso quasi a scatola chiusa per accontentare qualcuno.

Il calcio a Bari è di serie B a prescindere dalla serie effettiva in cui si milita, come di serie B è il rapporto malato con la tifoseria, con la città intera delle cui sorti non è mai interessato nulla a chi dirigeva la società di calcio. Qui si compra all’asta per quattro soldi una squadra che ha 106 anni, poi per mesi non si rivelano altri finanziatori, si lascia che corrano le voci più incontrollate, ci si prende due stadi pubblici in gestione senza che questo poi si trasformi in vantaggio per la città.

Adesso siamo al redde rationem, con una squadra senza contenuti tecnici validi, un pubblico ormai al calor bianco. Per mesi a Bari si è sognato, anche troppo.  Il risveglio non potrà che essere molto amaro.