Quello che vi raccontiamo è l’inno del tozzo di pane, la filastrocca del “potresti stare anche peggio”, il rito del “sì, padrone”. Succede in una piccola-media impresa barese che, non senza polemiche, sta per licenziare diverse decine di dipendenti. Tutta colpa della crisi economica dilagante e di uno Stato che ha smesso di far piovere contributi. Dopo essere passati indenni dalla cassa integrazione (che ha colpito senza pietà anche le famiglie monoreddito), questa volta alla roulette russa dovranno giocare anche gli amici degli amici e i raccomandati. I permessi speciali e gli esoneri sono finiti. In una riunione plenaria il capò ha detto ai suoi sottoposti che non c’è scampo. Secondo le sue sensazioni – quelle di uno che i suoi polli li conosce benissimo –  l’imprenditore non sarebbe disposto a trovare alternative al licenziamento. Neppure i contratti di solidarietà sembrano essere graditi. La guerra tra poveri, tra infamità, ruffianamenti ed eccesso di zelo, è già iniziata.

Il capò, però, non si è tirato indietro, promettendo la sua intercessione nel tentativo di salvare dal baratro almeno tre dei dipendenti a rischio. Poca cosa rispetto ai numeri previsti, alle richieste e alle prese di posizione dei sindacati, pronti ad alzare barricate e a vendere cara la pelle con tutte le ossa. Chissà se riusciranno ad alzare la voce – almeno questa volta – dopo certe ginuflessioni e gli accordi sottobanco del passato. Persino gli iscritti a quei sindacati- sempre più delusi – non ne sono più tanto sicuri. In tanti giurano che la compravendita del posto di lavoro è cominciata. Qualcuno è stato convocato dal padrone per il giuramento di fedeltà in cambio dell’inserimento nella lista degli intoccabili. C’è chi è pronto a giurare di aver visto molti fedelissimi in processione nelle stanze dei bottoni. Persino loro stanno iniziando a sentire puzza di bruciato, sempre più convinti di giocare una mano di poker con le carte segnate.

Intanto i lavoratori restano affacciati al treno, sempre in ritardo, del miracolo. Se ne stanno lì a prendersi schiaffi in faccia come nel film “Amici miei”. Avete presente? Sberle e sberleffi senza protestare perché colti alla sprovvista. Si resta in attesa dell’intervento divino, lo stesso che aspettava chi è finito in panchina già un paio d’anni fa quando è stato messo in cassa integrazione. L’assurdità di questa situazione sta nelle parole dette dal capò, pronto a tagliare le mele mature dall’albero della difficoltà economica, nuovo e poco gustoso innesto tra scelte sbagliate e rubinetti statali chiusi. Quasi certamente non si potranno evitare i licenziamenti – avrebbe detto scuotendo il capo – ma non parlate male dell’azienda. Lo so, non sembra vero, ma è andata proprio così a sentire chi ha partecipato a quella riunione. Non solo. Prima del commiato, però, si è sentito anche di peggio.

Alla vigilia della cassa integrazione ai dipendenti è stato chiesto uno sforzo supplementare: straordinari, compiti non propri da svolgere, silenzio e altre rinunce. Tutto questo, però, non è stato evidentemente sufficiente. A poche settimane dal licenziamento a chi resta è stato chiesto uno sforzo persino maggiore: lavorare sodo, come mai prima d’ora. Più di quanto i dipendenti rimasti a coprire anche il ruolo di chi è stato ritenuto un esubero, ha già fatto. Secondo voi qual è stata la risposta dei lavoratori? Proteste, scioperi e prese di posizione? Macché! Cantando l’inno del tozzo di pane, hanno detto ancora una volta tutti in coro: sì, padrone. Speriamo per loro che la mannaia non si abbatta su nessuno dei coristi. Che società è quella in cui si permette di conservare un lavoro a scapito del collega?