A Barletta scoppia l’indignazione la messa in onda del film documentario “Triangle”sulla tragedia del crollo di via Roma. Dramma associato, forse con leggerezza, ad un grave episodio avvenuto cento anni prima a New York.

Quella del lavoro nero è una piaga sociale che investe tutto il territorio nazionale e non solo quello pugliese, ma associare e confrontare i lavoratori in nero di Barletta del 2011 a quelli che hanno operato in condizioni irrispettose dell’umanità e degli elementari diritti delle persone, come l’evidente caso di New York del 1911, è stata un’operazione infelice.

Nella tragedia del 25 marzo 1911 all’interno dell fabbrica tessile newyorkese Triangle, morirono 146 persone (123 donne e 23 uomini). Erano soprattutto emigrate italiane ed ebree, alcune avevano solo 12 o 13 anni e facevano turni massacranti di 14 ore. Rimasero uccise in un incendio, all’interno del nono piano della palazzina in cui aveva sede la fabbrica. I proprietari, Max Blanck e Isaac Harris, si misero in salvo e lasciarono morire le donne e gli uomini rimasti intrappolati. Al momento dell’incendio si trovavano al decimo piano e tenevano “chiusi a chiave gli operai per paura che rubassero o facessero troppe pause”. Ben 62 delle vittime morirono nel tentativo disperato di salvarsi lanciandosi dalle finestre dello stabile non essendoci altra via d’uscita.

Differente la tragedia del 3 ottobre 2011 a Barletta, quattro operaie e la giovanissima figlia del proprietario di una piccola azienda tessile a conduzione familiare, che era ubicata nello stabile crollato. Il crollo del palazzo di via Roma era stato già preannunciato dalle lamentele fatte dai proprietari ed occupanti dell’immobile, che pare avessero interpellato già gli organi preposti al controllo: ufficio tecnico e operatori delle forze dell’ordine affinchè effettuassero i sopralluoghi. La ricostruzione dei due avvenimenti attraverso un unico modo di interpretare la strage, ovvero quello che attiene al lavoro nero, è immeritata ed indigna tutti i barlettani.

Sarebbe da ricercare la responsabilità in altre ambiti, non accusando piccolo imprenditore, quale datore di lavoro che sbarca il lunario e per tirare avanti s’inventa magliaio e apre un piccolo opificio in centro. Un lavoro nero dettato dalla disperazione, seppure esecrabile. In questo caso lo Stato, che deve garantire il lavoro, previsto dalla Costituzione italiana, ha mancato tre volte: piccoli imprenditori costretti ad assumere a nero il dipendente operaio, perché l’indice di tassazione sulle piccole aziende risulta essere troppo alto e quindi nell’impossibilità di essere concorrenziale; la seconda volta per non aver tutelato le lavoratrici, essendo costrette a lavorare in nero per poter sopravvivere e portare il pane quotidiano a casa. Infine, per non aver garantito alle donne, uomini, studenti, lavoratori o casalinghe che siano, la sicurezza nei luoghi pubblici e privati, imposta dalla normativa vigente. In questo caso specifico, probabilmente non applicata dai soggetti preposti ad assicurare le basilari norme di sicurezza.

Strazianti le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, preziose dal punto di vista emotivo. Sono le storie di donne, di lavoro nero, di morte, di attimi drammatici; ma  le immagini delle macerie del crollo di Via Roma, la concitazione, la disperazione, la corsa contro un tempo implacabile, il fatto di sapere che quella tragedia era stata annunciata dai reclami degli occupanti ad ogni titolo dello stabile, scatenano tanta rabbia.

Agghiacciante la testimonianza di Mariella Fasanella, operaia scampata alla morte perché protetta non dallo Stato, ma da un’architrave di un bagno dove si era recata per un attimo, e per chi ha fede, da una grazia ricevuta. Una voce tremante ed ancora oggi dopo anni impaurita e terrorizzata, dà la parole alle sue amiche e compagne inghiottite dai calcinacci; parla del proprietario come uno di loro, che lavorava con loro, sporcandosi le mani come loro, ed ha rischiato come loro di finire sotto le macerie. Queste parole non scagionano certo l’imprenditore dalle attanaglianti maglie della Giustizia Italiana, imprenditore colpito fortemente al cuore dalla morte della sua bambina di soli quattordici anni.

Tuona forte la frase di Mariella, che chiede a se stessa, ma soprattutto indirettamente allo Stato Italiano: “Perché, se fossimo state ingaggiate, il palazzo non sarebbe crollato e quelle vite cancellate?”. A Daniele Cascella ed a Pietro Damico, consulente e opertaote, oltre che ai testimoni, va in ogni caso piena riconoscenza per l’impegno avuto avendo contribuito alla realizzazione del Docufilm, seppure viene fuori una visione parziale di quanto successo.

La tragedia del 2011 non evidenziano le altre peculiarità, sottaciute dal film, ma che andrebbero ancora oggi sviscerate, immagini depennate dal docufilm, quelle forti, quelle crude delle famiglie distrutte, di chi non ha più una mamma, una sorella, una figlia, un’amica; persone che non si sostituiscono con un monumento, una fiaccolata, con dieci denari o un’abitazione. In questa tragedia c’è solo una sete ancora viva, la sete di Giustizia.