Bitonto, via Ugo La Malfa, è il primo pomeriggio del 6 gennaio 2015. Il 29enne Carlo, difeso dall’avvocato Nicola Lerario, non potrà mai dimenticare quel giorno. In queste ore ha saputo di dover scontare una condanna definitiva a 5 anni di reclusione, con l’accusa pesantissima di pedofilia, per aver palpeggiato una bambina di quattro anni.

“Non ho mai palpeggiato quella bambina – continua a ripetere il condannato – sono state fatte indagini lacunose. La mia vita è rovinata, avendo avuto l’unica colpa di aver aiutato la piccola a rialzarsi da una caduta”. La situazione è delicata, davanti a una condanna definitiva bisogna muoversi con la massima cautela, ma leggendo gli atti processuali abbiamo scelto di andare a fondo.

Carlo ci accoglie nel retrobottega del suo negozio, a Bitonto. È visibilmente provato, prima di questa storiaccia era incensurato e aveva una moglie, che ha perso anche per via della detenzione in carcere, un periodo che ha complicato ulteriormente la vita privata dei due. Ma cosa è successo? Carlo, allora 25enne, sta ristrutturando il locale dove avrebbe aperto la sua attività. Chiama sua moglie e le dice di prepararsi per andare insieme da Le Roi Merlin a comprare il materiale necessario. Durante le indagini il suo cellulare viene individuato dove dice di essere. Un punto a suo favore.

Da quel momento partono i 5 minuti infernali di quel 6 gennaio, giorno di festa e di mercato settimanale a Bitonto. In quel lasso di tempo Carlo raggiunge da via Traetta via Ugo La Malfa mentre sono in corso le pulizie, citofona alla moglie mentre la zia della bimba, che abita in un garage accanto, sta lavando le scale. Nell’androne del palazzo, visibile dalla strada perché sprovvisto di portone e in cui abita anche la nonna della piccola, si abbassa i pantaloni, abusa della bimba, si ricompone, aspetta la moglie e parte verso Le Roi Merlin dopo aver messo il passeggino di suo figlio in auto.

La versione del ragazzo è diversa. “La bambina stava scendendo i tre scalini con addosso gli stivali della zia – racconta e si legge nelle carte – mentre ero lì è caduta e sono andato immediatamente da lei per aiutarla a rialzarsi. Stavo sistemando il passeggino in macchina, una Citroen C3 Picasso, ricordo che l’ammortizzatore del pistone era rotto e il portellone dell’auto mi è caduto in testa, provocando le risate della zia della piccola”. Tutto sembra procedere normalmente fino a quando la Polizia piomba a casa di Aldo, il papà di Carlo, che abita al’ultimo piano del palazzo e che con la famiglia della bambina, i Sicolo, ha già avuto altri screzi.

Carlo e la sua famiglia vivono con il padre e la madre di lui da circa tre mesi. Ha uno sfratto e avrebbe voluto sistemarsi in quella casa popolare visto che i genitori stavano trovando un’altra sistemazione. La descrizione dell’orco fatta dalla piccola è imprecisa. “Sembrava sotto dettatura – continua Carlo -. Diceva che a farle del male era un uomo che abita nel bar, con un cane bianco e che guidava il furgone. Nessuno ha dato importanza al fatto che il cane di mio padre era morto due anni prima, che ero arrivato e ripartito con la mia auto, non con il furgone e che la bimba non avrebbe mai potuto sapere che in quel periodo lavoravo nel bar di famiglia senza che nessuno glielo avesse suggerito. Non l’avevo mai vista prima”.

Quando circa un mese dopo arriva la notifica con l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nonostante alcune precedenti rassicurazioni da parte degli investigatori, la famiglia di Carlo piomba nell’incubo. Papà Aldo si fionda al commissariato e gli viene suggerito il nome di un avvocato al quale rivolgersi. L’uomo si reca nello studio e in sala d’attesa vede alcuni familiari della bambina oggetto delle presunte attenzioni del figlio. L’avvocato stesso ammette di difenderli per altre questioni, ma dice ad Aldo di non preoccuparsi perché c’è un video.

Peccato, però, che quel video sia parziale: solo 1 ora 4 minuti e 53 secondi  a disposizione, ma totalmente insignificanti. Le immagini della telecamera pubblica, montata in cima a un palo, partono dal momento successivo al fatto. E il resto? Nel corso del processo, quando a chi indagava è stato chiesto se avesse visto il filmato, la risposta ha scandalizzato tutti: “Assolutamente no, non ce n’era motivo”. Il video sarebbe potuto essere determinante, perché avrebbe potuto fornire elementi essenziali alla determinazione dell’innocenza o della colpevolezza di Carlo.

Non siamo giuristi, ma la prassi sembra se non altro discutibile. Il responsabile delle indagini non è più a Bitonto, così come in quel garage abusivo in via Ugo La Malfa non c’è più neppure la famiglia della piccola, emigrata in Lombardia. Famiglia che a quanto pare avrebbe avuto problemi con un altro minore, seguito dai servizi sociali. Episodio avvenuto prima della presunta violenza.

E torniamo a quel giorno. Nonostante le accuse gravissime, la bimba viene sottoposta a visita specialistica solo dieci ore dopo l’accaduto, senza che emergesse alcun indizio di un eventuale abuso. Perché non è stato rispettato il protocollo previsto in queste situazioni? Tant’è che il reato di cui è stato accusato Carlo non è la violenza sessuale, neppure tentata, come inizialmente ipotizzato, ma di aver palpeggiato la piccola. “Del resto come avrei potuto fare ad abusare di lei in quelle condizioni, con almeno una ventina di suoi familiari a pochi metri, in 5 minuti e per di più con la zia che lavava le scale, con il palazzo accessibile a chiunque perché senza portone?” Carlo non riesce a darsi pace.

Alla luce del quadro accusatorio debolissimo, cosa sarebbe successo se nell’interrogatorio di garanzia il primo avvocato gli avesse consigliato di avvalersi della facoltà di non rispondere? “Non saremmo arrivati a questo punto – dice amareggiato – in buona fede ho detto di essere stato lì, perché ci ero stato effettivamente, e avevo aiutato quella bambina a rialzarsi dopo la caduta. Come avrei mai potuto immaginare di ritrovarmi la vita distrutta in questo modo?”.

Tra le altre cose Carlo è affetto da sclerosi multipla. È anche sotto cura antidepressiva, aspetta di essere incarcerato, ma spera in nuove prove e quindi nella revisione del processo. Il sospetto è che possa essersi trattato di un’accusa costruita ad arte per evitare che entrasse in possesso della casa popolare del padre, che consegnò comunque le chiavi all’Arca.

Quell’alloggio successivamente è stato occupato abusivamente, ma adesso è vuoto perché gli autori del reato sono in carcere per altre ragioni. Siamo stati sul posto per sentire anche la versione della famiglia Sicolo, che con la Legge ha diversi problemi. Nessuno di loro, ad eccezione della nonna della bambina, ma con la condizione che non si vedesse in volto, ha voluto parlare davanti alla telecamera.

“Giustizia è stata fatta”, ha detto la nonna, seppure non siamo del tutto convinti, anche perché sui particolari della vicenda ci sono diversi punti oscuri e divergenze nei racconti fatti dagli stessi familiari, persino sul fatto che la bambina stesse scendendo o salendo quei tre scalini, sulla presenza del cane bianco, tanto per citarne alcuni. Alcune delle persone raggiunte non ricordavano neppure l’episodio. A dire loro della condanna di Carlo siamo stati noi. Nessuno li aveva avvisati, né tanto meno si sono costituti parte civile nel processo.

Nessun video, la zia che puliva le scale, un rapporto controverso tra famiglie con vecchi rancori e denunce, lacune nelle indagini, la tardiva visita alla bambina, testimonianze controverse. In carcere sta finendo davvero un pedofilo? Restano tanti dubbi e per una condanna così infamante non dovrebbe essercene neppure uno.