Ciao Luigi, probabilmente ti stai rivoltando nella tomba e ne avresti tutto il diritto, non avendo avuto né la medaglia al valor militare, che pure ti spettava, né la verità ufficiale su quanto successe il 17 maggio di otto anni fa in Afghanistan.

Tu, su quel lince, malato e senza la necessaria protezione, non saresti dovuto nemmeno salirci. Non ci siamo mai conosciuti personalmente, ma la tua eccezionale famiglia mi ha concesso l’onore di scrivere la biografia di un ragazzo semplice, diventato martire più che eroe troppo presto, a soli 24 anni. Era il 2010.

Nonostante siano passati otto anni e i tuoi adorati nipoti siano ormai dei ragazzini, resti una delle tante morti imbarazzanti del nostro Paese. Ciò che più fa attorcigliare l’intestino è che non sia stata ancora scritta la parola fine su quanto successo quel giorno ad Bala Murghab. Proprio così. Ti scrivo solo oggi per un motivo preciso: non volevo che queste mie considerazioni potessero mescolarsi con i gesti di rito, compiuti anche da chi forse avrebbe potuto chiedere con maggiore determinazione la verità dei fatti.

Ho letto le centinaia di pagine del fascicolo giudiziario e pare proprio che qualcuno non abbia molta voglia di mettere nero su bianco ciò che davvero è accaduto. Non mi riferisco al momento in cui sei saltato in aria, ma alle ore precedenti, quando è stato deciso che avresti dovuto guidare pur avendo la febbre, per di più un mezzo senza la protezione indispensabile per quel tipo di attività.

Da un lato meraviglia, dall’altro rabbia, perché morire per una Patria che non riconosce di aver mandato un proprio figlio allo sbaraglio è come trovarsi di fronte a una mamma assassina. Il peggio che possa capitare. Non so se la tua storia è arrivata al capolinea. Vorrei tanto ci fosse un’ultima stazione, quella in cui lo Stato che hai servito con onore si prende carico di raccontare, attraverso le tante carte disponibili, perché sei morto in quella colonna di mezzi sicuri ad eccezione del tuo.