Qualche giorno fa, il giorno delle audizioni per i ruoli minori di Elektra (stagione 2014), fuori dal teatro avevamo promesso ai musicisti “arrabbiati” per le nostre inchieste, che con il Falstaff avremmo iniziato a rcensire ciò che accade all’interno del teatro. Ecco la nostra recensione che, come tutte promuove qualcuno e boccia qualcun altro.

È il Falstaff di Giuseppe Verdi a concludere l’ultima, tormentatissima stagione del Teatro Petruzzelli gestita da un commissario straordinario ocupato oltremodo a schivare i duri attacchi, che evidenziano una gestione non priva di incongruenze. Cominciamo subito col dire che è senz’altro un onore ospitare il maestro Luca Ronconi, con una messa in scena scrupolosa, asciutta e seriosa. Il sipario si apre su un Falstaff decisamente anziano e stanco, un ottantenne stravaccato su una poltrona malandata. Ogni cosa sulla scena ha subito il giudizio del tempo: mobilia, macchine, costumi, non di meno i personaggi che gravitano attorno al nucleo-Falstaff. Ciò che dispiace, in alcune scene, è che l’occhio cada immediatamente sulle praterie (sia di cartapesta, sia di spazio inutilizzato) che si creano sul grande palcoscenico del Petruzzelli. Un po’ come se l’autore avesse deliberatamente scelto di impiegare l’angolino basso di una grande e preziosa pagina bianca.

Uno dei momenti culmine dell’impianto scenico a firma di Tiziano Santi è l’ultima scena, dove l’immancabile letto dell’ottuagenario Sir viene oppresso dalla misteriosa quercia di Herne (e molto ben costruita come tutta la scena, complimenti a Pastoressa del laboratorio Petruzzelli), che molto ci rimanda alle prime pellicole timburtiane. È sempre in questa scena che assistiamo a un vero e proprio banchetto di insetti (e non di creature favolistiche, a parte qualche fata sparsa), con interessanti costumi di Maurizio Millenotti, che contribuiscono a rendere l’atmosfera ancora più gotica.

Verso la fine, però, viene da chiedersi perché scena e luci restino tetre e adombre anche al momento della fuga finale, dove tutto è stato svelato e lo scherzo spiegato. Dovrebbe essere una festa di luce (“facciamo il parentado”, cioè rimaniamo uniti e festeggiamo) e, invece, la burla si tinge di nero e diviene macabra. Forse perché ci troviamo di fornte a una strana metafora del trio ottuagenario (Verdi, Falstaff, Ronconi), che sembra servire al regista (così come a tutti) come promemoria che tutto ha una fine inevitabile e che, per giunta, ora è più vicina del solito. Per questo, forse, abbiamo un Falstaff privo di leggerezza, gaudio e comicità. Una lettura che fa rimpiangere l’essenza della partitura verdiana: brillante, comica, a tratti feroce, comunque coloratissima.

Una direzione asettica, spesso arrancante è quella del direttore Daniele Rustioni, giovanissimo rampollo alla guida suprema di un teatro altrettanto giovane, sia come masse orchestrali e corali, sia come tempio dell’opera (ricordiamo che il Petruzzelli è stato restituito alla città di Bari solo nel 2009, da un sindaco che ancora subisce attacchi – a detta di qualcuno non immotivati – per esser riuscito nell’impresa). Certo, per un teatro così giovane, composto in buona parte da gente sicuramente valentissima, ma anche a digiuno di esperienza, avremmo preferito una figura con maggiore competenza e maturità. Ma non ci lamentiamo, perché Rustioni dimostra comunque una discreta padronanza tecnica.

Peccato che a tratti il suo “giovanile ardore” scade in un mero sciovinismo, mentre scarseggiano i momenti di sincero trasporto e fascino musicale. Rarissime le parentesi seducenti e le dirompenti esplosioni orchestrali vengono soffocate e ingessate da una fretta incomprensibile. Il lirismo scarseggia della giusta tensione, benchè questa partitura pulluli di piccole parentesi ipnotiche e suadenti. Abbiamo persino ritrovato nella sua direzione una buona dose di insicurezza e tensione emotiva, che si è poi trasferita sul resto del cast che, nel terzo atto, ha annaspato cercando di mettere insieme i cocci di un’amalgama incespicante,  che nulla ha potuto fare per evitare l’annullamento totale dei contrattempi nel n. 53 del terzo atto. Capita, ma non dovrebbe in una Fondazione lirico-sinfonica (che vuole essere “un fiore all’occhiello”, citando il ministro Bray). E soprattutto questo non è concesso a un direttore stabile, nè tantomeno a un commissario che dimostra ogni giorno di più la sua incapacità artistica, con una programmazione sinfonica pregna di repertori sacri, inadatti all’acustica del Petruzzelli, cast spesso deludenti, e un’orchestra che stenta a crescere perché, con l’ottimo potenziale che si ritrova, andrebbe allevata in maniera molto più adeguata.

Nel Falstaff, l’orchestra ha dimostrato la solita freschezza e abilità tecnica individuale, ma puntualmente rimpiangiamo il calore e la duttilità della compagine precedente. A oggi rimaniamo sempre nell’ordine di una esecuzione lontana dal voler gridare al miracolo. Un ottimo Roberto De Candia (nostro conterraneo ndr) in piena forma, con una vocalità sicura e un’esecuzione pressochè perfetta, interpreta il cotto Falstaff, quasi sempre nella sua camera da letto, seduto o sdraiato, scevro da quella solita inflessione comica alla quale siamo abituati. E De Candia ne approfitta per entrare nelle vesti di un Sir John serioso, purtroppo anche rinunciando a certi preziosismi chiaramente annotati da Verdi e ai quali teneva moltissimo (più di tutti un fa diesis a “mezza voce”).

La bella Alice, Serena Farnocchia, ha dimostrato anche lei una notevole maturità vocale e padronanza della scena. Non esitiamo a dire che questi due artisti sono stati le colonne portanti dello spettacolo. Le allegre comari (Mrs Alice Ford già citata assieme a Rosa Feola – Nannetta, Barbara Di Castri – Mrs Quickly e Monica Bacelli, Mrs Meg Page) creano un affiatato vortice scenico ben strutturato. Nosostante vocalmente possa sembrare che ci siano diverse titubanze, il risultato finale è piuttosto piacevole e ben recitato.

Per il ruolo di Ford (Artur Ruciński) diciamo, senza fanatismi nazionalistici, che avremmo gradito poter intendere chiaramente il testo, al di là delle altre questioni che in questa occasione preferiamo lasciar perdere. I due tenori restanti dell’opera, il Dr. Caius (Raul Gimenez) e Fenton (Leonardo Cortellazzi) hanno ben vestito i panni di due personaggi, il primo nobile, vecchio e biloso; l’altro modesto ma poetico (quest’ultimo è sempre vestito da operaio con tanto di salopette), che si contendono la mano della bella Nannetta.

I due “fedeli” di Falstaff, Bardolfo e Pistola (Massimiliano Chiarolla e Domenico Colaianni) accompagnano il protagonista crandogli attorno una discreta atmosfera birbantesca. Saranno due artisti che vedremo molto spesso nella stagione 2014, in particolare Colaianni, che intepreterà ogni genere di ruolo, segno evidente che ci ritroviamo di fronte a un camaleonte.

La decisione di Fuortes (che ha emanato bandi pubblici per coprire molti ruoli nella stagione 2014, anche pescando nella cesta dei cantanti non diplomati, che secondo i più verranno anche sottopagati), di impiegare sempre le stesse figure artistiche, benchè il nostro panorama locale offre una discreta quantità di eccelsi professionisti, ci lascia molto perplessi.

La civetta