Cos’è il jazz per te?

Nel mio percorso, il jazz mi ha dato molte opportunità, anche al di là degli eventi squisitamente musicali, mi ha permesso di osservare l’essere umano nelle sue varie sfaccettature. Per me ha significato avventura, ricerca, realizzazione dei propri sogni, la possibilità di vivere in un ambiente dove c’è la massima tolleranza, senza dover ricorrere al filtro della parola che viene spesso equivocata. Il jazz è un posto dove si è realizzata, senza neanche discuterla, una globalizzazione “ecologica”, dove ognuno ha il forte senso delle proprie radici, andando però incontro all’altro. Nel jazz il razzismo non esiste.

Nel rispondere hai cambiato più volte la pronuncia, allora una questione di lana caprina: si pronuncia “giass” o “gezz”?

Guarda, sulla morfologia del termine ci sono varie interpretazioni. Una lo accosta ad un verbo che significa rotolare, rotolarsi, e quindi lo associa ad un certo andamento del corpo. Nel tempo il vocabolo si è evoluto, pensa che nei nostri dialetti – sorride – esisteva la uazzaband, ovvero la batteria, lo strumento jazz per antonomasia. Insomma, si può pronunciare in qualsiasi modo, penso che non si offenda nessuno.

Leggevo il tuo curriculum, hai suonato sin dagli esordi con nomi importanti del panorama mondiale. Quando hai smesso di essere quello che “ha suonato con” e sei diventato tu il nome che viene inserito nel curriculum degli altri?

Sinceramente è difficile dirlo, anche perché se c’è stato questo passaggio io non me ne sono accorto – ride. Ogni momento, anche quando sono con i ragazzi per un semplice laboratorio, è un’importante occasione di incontro e crescita, per cui non mi sono mai posto il problema di essere arrivato da qualche parte. Indubbiamente ho avuto delle esperienze preziose che, in qualche modo, avendo io una certa età almeno all’anagrafe, sono state segnate da momenti estremamente importanti per l’evoluzione di questa musica nel nostro Paese ed io me ne sento portatore ma anche responsabile.

Sei considerato tra i padri fondatori del jazz in Puglia. Per arrivare a tanto, sono stai di più i sacrifici e la fatica o le soddisfazioni e il piacere di suonare?

Non c’è rosa senza spine – sospira. Viviamo in una zona del mondo in cui, il massimo dell’impegno, molte volte, ti permette di ottenere il minimo risultato. Vivessimo ad un’altra latitudine, probabilmente i nostri straordinari artisti non avrebbero bisogno di tutto questo sforzo. Oggi la Puglia annovera i migliori artisti a livello internazionale, però l’editoria praticamente non esiste, giusto qualche timida etichetta inizia a testimoniare il lavoro di alcuni di noi, ma tutto ciò non basta, non siamo sotto i riflettori. Continuiamo a dover andare al ‘Blu Note’ di Milano o in qualche club di Londra come in pellegrinaggio. Ancora oggi, purtroppo, nemo propheta in patria. Quando torni qui, gli altri ti vedono in maniera diversa, e magari non è cambiato nulla nel tuo modo di essere o di suonare.

Ascolti la musica pop e se sì, chi ti piace?

Il pop è il mio punto di partenza. Ascolto cose forse un po’ datate, Bijork, David Sylvian, anche i Radiohead. Nei prossimi mesi verrà pubblicato un disco in cui io faccio un omaggio al pop. Per una volta le mie fonti non saranno quelle dalle radici afro-americane ma alcuni autori che porto nel cuore come Peter Gabriel, Rod Stewart, Joni Mitchell o i Pink Floyd.

Contrariamente al pop, i musicisti jazz militano in diverse formazioni. Molti progetti, poi, hanno il fascino e la vita di un tramonto. Perché secondo te? Voglia di diversificare, mancanza di una visione a lungo termine o altro ancora?

Ma vedi, noi musicisti jazz nasciamo così, nella jam session, nell’instabilità dei gruppi, nella necessità di doverci cimentare in mille situazioni per  sbarcare il lunario. Il pop ha alla base un concetto diverso, in qualche modo viene già inserito in un establishment musicale che impone una certa burocrazia nell’organizzazione, una sorta di gabbia dorata in cui gli artisti vengono collocati per cui ogni combinazione, ogni incontro, diventa un evento straordinario, poi magari non succede niente di particolare musicalmente. Nel pop che ho conosciuto io, ci sono stati degli interpreti che avevano le capacità di cimentarsi con linguaggi differenti. Ricordo alcuni filmati in cui il flautista dei Jethro Tull, Ian Anderson, suonava con dei musicisti africani, con i componenti di un gruppo chiamato Traffic o con una formazione di archi ed io apprezzai questa sua capacità di essere a proprio agio in situazioni differenti. Diciamo che nel pop sono eccezioni, nel jazz è il pane quotidiano.

Il jazz ha un vastissimo seguito, però resta comunque di nicchia, non trova spazi sui mass media. Di chi è la colpa?

La risposta sarebbe troppo scontata…io ricordo il programma Studio Uno in prima serata in cui l’orchestra della Rai eseguiva delle cose complicatissime e spesso anche gli arrangiamenti; una Mina straordinaria, sia come conduttrice che come interprete, eseguiva un medley di musica sudamericana con Irio De Paula, o in cui invitavano personaggi del calibro di Bruno Maderna a parlare della serenata. Oggi la televisione è inguardabile.

Accostarsi al jazz sembra complicato: senti parlare di standards, big band, mood… come si spiega ad un profano? C’è un percorso da seguire per avvicinarsi a questa musica in maniera indolore, una guida del tipo “Jazz for dummies”?

Sarebbe sicuramente una buona idea per dei programmi televisivi, qualcosa ha provato a fare Renzo Arbore, ma si tratta di pillole. Mi hanno detto che il programma di Bollani ha provato a fare qualcosa del genere, anche se andava a tarda ora.

Sei un tipo scaramantico?

Si.

Qual è la prima cosa che fai appena sveglio e l’ultima cosa che fai prima di dormire?

Andando in cucina come uno zombie, la prima cosa che faccio è il caffè. Prima non voglio nemmeno parlare. L’ultima cosa che faccio prima di dormire è ripensare alla giornata trascorsa e darmi un voto: se ho fatto del male a qualcuno, se ho tenuto fede all’amore verso le persone che mi sono vicine, se ho mantenuto le promesse che mi sono fatto. Questo mondo folle ci pone davanti a mille interrogativi e le risposte spesso sono nella nostra condotta  quotidiana.

Qualcosa di cui sei veramente fiero e un errore che invece oggi non rifaresti…

Aver tenuto duro in questi anni, senza colpi di testa nel rapporto tra la musica e la scelta di avere dei figli, cercando di essere molto presente come padre e genitore. Per me i figli sono importantissimi, spesso musica e famiglia, con tutti i viaggi che devi fare eccetera, non sono conciliabili. Quello che non rifarei, sono sicuramente alcune collaborazioni.

Impugni le bacchette ogni tanto o la batteria appartiene a un’altra vita?

La batteria è stato il primo strumento che ho suonato, da autodidatta. Ancora oggi mi piace sentire determinati suoni, lo swing in un certo modo, per cui sono la peste per i miei studenti di conservatorio. Lo faccio anche con i batteristi con cui collaboro. Rischiando di urtare certe suscettibilità, faccio il segno della croce e mi permetto di suggerire certe cose.

Dove sta andando il jazz oggi? Come vedi i progetti che alcuni dj stanno sperimentando, dove porteranno il jazz secondo te?

Da gli anni ’60 il jazz è letteralmente esploso, come la pop art, il cinema…il jazz ha iniziato a guardare il mondo, al rock, alla musica etnica, la musica contemporanea… prima gli stili erano ben identificabili, dopo è andato in mille direzioni. Qualcuno ha detto “il jazz è morto”, “viva il jazz”, Non sono d’accordo.

Ti piace la birra?

Si. Rigorosamente doppio malto, stasera però mi fanno andare ad acqua.

 

Purtroppo per lui, gli organizzatori non devono essere musicisti.

Gianluca Lomuto

 

Ascolta il brano di Roberto Ottaviano e Pietro Laera: Sete Aneis di Egberto Gismonti

http://www.robertoottaviano.com/

 

Fotografie di Giovanna Mezzina