Pinuccio, uomo del sud, racconta la triste storia del suo braccio rotto, che proprio non smette di fargli male. Il monologo, nato tre anni fa dalla penna di Salvatore Arena, si ispira a una storia vera, quella della strage del Truck center di Molfetta del 3 Marzo 2008, dove persero la vita cinque uomini, il più giovane di 19 anni.

Pinuccio guarda i suoi compagni morire, uno dopo l’altro cadere nella cisterna vuota che stanno ripulendo dallo zolfo e che, a contatto con l’acqua, si è trasformato in acido solforico. Lui guarda, ma non riesce proprio a muoversi per andare ad aiutarli. In quel momento pensa alla sua famiglia, alla sua vita e gli manca il coraggio.

E mentre sul palco lui si dimena e riavvolge il nastro della sua vita, tutti trattengono il fiato e alla fine si pongono la stessa domanda: “Ma al posto suo, cosa avrei fatto?”

Il dato straordinario è che, ad ascoltare una storia quasi interamente in dialetto barese, ci sono almeno una decina di ragazzi non italiani (e in particolare non baresi) ma piuttosto francesi, lettoni, spagnoli, tunisini, eritrei e marocchini. E alla fine tutti applaudono, tutti commentano, tutti annuiscono e ridono alle battute. Ma com’è possibile?

“È tutta opera della magia della scrittura di Salvatore Arena” risponde, sorridendo, Massimo Zaccaria.

Ultimamente, a Napoli, un gruppo di giovani artisti ha occupato alcuni uffici pubblici per ottenere uno spazio dove provare. Che ne pensi di tali carenze strutturali e, soprattutto, culturali di spazi come questi?

Bari, come tutte le altre grandi città, vive in un sistema individualista dove manca la collettività. Villa Roth è proprio questo che vuole raggiungere. Ha una mentalità dell’accoglienza, offre all’arte uno spazio a 360° dove esprimersi, un po’ lo stesso messaggio del cinema e dell’attore.

Mancano gli spazi e i costi di affitto delle strutture sono troppo alti. Dove si fa teatro?

Oggi a teatro ci vanno solo gli intellettuali, ma non è teatro quello: i luoghi importanti sono luoghi mortali. In fin dei conti, come dice Peter Brook: «Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro lo osserva: è sufficiente a dare inizio a un’azione teatrale».

Sono arrabbiato con questa terra, qui in Italia c’è un gioco politico-partitico anche dentro il teatro, ci sono leggi finte dello spettacolo che si concede solo a chi è dentro certi meccanismi. È per questo che io amo il teatro elisabettiano, proprio perché sta fuori da queste logiche. A Kismet, all’Abeliano, ad esempio, ci va solo la gente perbene. Mentre al Globe Theatre di Londra ci trovi di tutto, dall’avvocato all’operaio. Questa è uguaglianza! Questo è teatro.

Hai già avuto altre esperienze con spazi occupati come questo di Villa Roth?

Si, sono stato a Pisa, Salerno, Reggio Calabria e poi a Bari, al Socrate Occupato e qui… La militanza la devi sentire nel Dna.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sicuramente, quello di creare un centro internazionale di ricerca teatrale. Pensa a poter mettere insieme, su di un solo palco, un cinese, un somalo, un giapponese, un francese, uno svedese, un turco… Se riesci a farlo, hai già detto tutto. Purtroppo di queste scuole ne esiste solo una, ed è la Peter Brook di Parigi.

Fotografie di Marco Ranieri

 

27 aprile 2012

Valeria Dammicco