“Vorrei raccontare la mia storia come testimonianza di violenza ostetrica e malasanità, avvenuta in un nosocomio importante e rinomato del sud Italia. Oggi abbiamo avuto notizia che il tribunale di Bari ha chiesto l’archiviazione per il mio caso, perché evidentemente ritiene che tutto ciò che mi è accaduto sia giusto o normale. Lascio giudicare a voi”.

Inizia così il racconto pubblicato sul proprio profilo di Facebook da Valentina. “Premetto che io sono malata di fibromialgia, per chi non sapesse di cosa si tratta, consiglio di cercare il termine su Google e leggere qualche risultato – si legge -. In parole povere, è una sindrome reumatica che causa dolore e stanchezza cronica, rigidità muscolare perenne con insensibilità ad alcuni tipi di farmaci ed altre amenità. Di questa mia patologia tutto il personale medico era a conoscenza, ma l’informazione è stata snobbata e sottovalutata in quanto moltissimi medici ancora non sanno bene cosa sia la fibromialgia e tendono a classificarla come malattia psicosomatica o quasi, senza comprendere tutte le implicazioni che può comportare”.

“Il 1 luglio 2019 vengo ricoverata per forti algie pelviche e renali, rialzi pressori ed edema diffuso alle gambe. L’esame delle urine delle 24 ore mostra una proteinuria di oltre 600, ma il mio ginecologo dice che è ancora accettabile, nonostante si tratti di un valore 4 volte superiore al limite. Dopo 2 giorni di osservazione vengo dimessa. Il mio medico curante si meraviglia di ciò in quanto secondo lei avevo invece la pre eclampsia e avrebbero dovuto quindi far nascere la bambina con un cesareo d’urgenza, ma il mio ginecologo insiste che va bene così e che devo solo stare sotto controllo – spiega Valentina -. Il 10 luglio 2019 (ero a 39 più 3) il tracciato mostra contrazioni abbastanza forti e regolari, su consiglio dell’ostetrica e dopo consulto col mio ginecologo mi presento in pronto soccorso. Mi portano in sala parto, il mio ginecologo per telefono chiede ai colleghi di turno di procedere con stimolazione con prostaglandine tramite inserimento fettuccina per avviare il parto più rapidamente. Viene inserita la fettuccina, sono circa le ore 13.00. La dilatazione tarda ad arrivare, ma alle 19.00 le contrazioni sono forti e regolari e provata dal dolore incalzante chiedo la parto analgesia, anche se le ostetriche mi dicevano che 2cm erano troppo pochi e di aspettare. Nel frattempo, la pressione si alza e lo staff medico decide di darmi una pillola per farla abbassare”.

“Vengo portata in sala parto, l’anestesista è dietro di me con la sua specializzanda. Faccio presente che ho una scoliosi lombare e che quindi non sarebbe stato facile ‘bucare’ in quanto la spina dorsale oltre che storta ha anche alcuni gradi di rotazione. Nonostante ciò, è la specializzanda che cerca di farmi il buco. Me ne fa 4, perché ogni volta non appena inserito l’ago, sentivo un forte dolore sul lato destro del corpo. Dopo il terzo tentativo inizio a protestare dicendo che quella procedura doveva togliermi il dolore invece di infliggermelo, per tutta risposta l’anestesista dice che la peridurale funziona così, a tentativi, perché non si può vedere dove stai bucando. Vabbè – continua -. Da subito noto che qualcosa non va. Il farmaco iniettato non mi fa alcun effetto analgesico. Mi dicono di aspettare, ma dopo 30 minuti il dolore è sempre lì, anzi, aumenta con l’aumentare della dilatazione che all’improvviso incalza rapidamente. Dalle 19 in poi mi vengono iniettati 6 o 7 farmaci differenti, a distanza di circa 1 ora l’uno dall’altro, sotto gli occhi esterrefatti dell’anestesista che non capisce perché niente mi faccia effetto. Sto partorendo con una peridurale nella schiena ma con tutti i dolori di un parto senza analgesia”.

“Alle ore 23 la dilatazione è massima, mi dicono di iniziare a spingere. Lo faccio, come mi hanno insegnato al corso pre parto, ma mi dicono che la bambina è ancora molto in alto, che ci vorrà tempo, che ogni spinta la fa scendere di 1mm alla volta. Inizio a perdere sangue, ogni volta che arriva la contrazione spingo circa 3 volte e ogni volta l’ostetrica di turno mi infila le dita per vedere quanto e se la bambina scende, causandomi ulteriore dolore – racconta Valentina -. Ogni volta scuote la testa e mi incalza di spingere di più, di impegnarmi. Le rispondo che più di così non posso, che le mie forze sono quelle, che non ce la faccio più. All’1 la bambina è ancora bloccata nel canale del parto, inizio a urlare che non ce la faccio più, che voglio parlare con il medico, che voglio il cesareo. Si presenta il chirurgo che mi dice che io devo solo pensare a spingere e che se chiedo il cesareo evidentemente voglio il male di mia figlia perché mia figlia può morire. Continuano a iniettarmi analgesici che non fanno altro che ottenebrarmi il cervello tanto che inizio ad avere delle vere e proprie allucinazioni visive oltre che ad attaccarmi al rubinetto del bagno cercando di bere quanta più acqua possibile”.

“Mi mettono in tutte le posizioni possibili, mi fanno spingere sul wc, in piedi, di lato, in posizione ginecologica, mi dicono seccati di smetterla di urlare – afferma la donna -. Verso le 2 inizio a strillare così forte che per i successivi due giorni sarò quasi afona, le contrazioni sono circa una al minuto, il dolore è insopportabile, sono madida di sudore, mi cola sangue lungo le gambe e tutta la mia camicia da notte ne è intrisa, mi metto letteralmente in ginocchio implorando il cesareo perché era evidente che non riuscivo a partorire naturalmente. Insistono che devo continuare a spingere, che non mi sto impegnando, che tanto decidevano loro e io e la mia volontà non contavano un cazzo.
Per circa 30 minuti mi rifiuto di continuare a spingere e ricordo loro che io sono una persona malata e non sana, che sento il dolore il triplo di un soggetto normale, che la peridurale non mi sta facendo effetto se non quello di rimbambirmi, che non ho più forze.
Cercano di farmi rimettere in piedi ma le gambe non mi reggono più e sono costretti a rimettermi a braccia sul lettino. Alle ore 3.45 circa, dopo ennesimo tentativi di spinta ed ennesima mano che mi rovista nelle mie parti intime, l’ostetrica chiama di corsa il chirurgo. La bambina non solo non scende più ma addirittura sembra stia risalendo. È bloccata ormai da ore. Il chirurgo entra in quella maledetta stanza e mi dice: ‘Va bene signora, le dobbiamo fare il cesareo, é contenta adesso?’ Contenta? Ma che cavolo vuol dire? Perché dovrei essere contenta di partorire praticamente due volte?! Tutto quel dolore, quella profusione di forze e quel dispendio di energie durato ore ed ore era stato inutile, come io avevo detto sin dall’inizio esprimendo al mio ginecologo tutte le mie perplessità sulla possibilità di un parto naturale nella mia condizione. Devo aspettare che vengano chiamati i medici con la disponibilità notturna, attendo circa altri 30 minuti di dolori atroci, a questo punto lasciata totalmente sola in quella maledetta stanza, prima di essere portata in sala operatoria”.

“Ora, la fibromialgia si caratterizza anche per l’estrema sensibilità a tutti i tipi di contatto corporeo. Sento tutto. Sento il taglio, sento l’estrazione della bambina, ma soprattutto sento quando mi ‘rimettono a posto’ gli organi interni. Per fortuna non sento dolore perché a questo punto mi hanno attaccato direttamente la morfina, ma per lo choc di sentirmi aperta e rovistata svengo sul lettino. Mi portano per qualche minuto fuori a vedere la mia famiglia, che nel frattempo ha sentito tutte le mie urla, i miei pianti e le mie suppliche.
Sono felici per la nascita della bambina ma sono spaventati e scioccati per tutto ciò che hanno sentito aldilà della porta – si legge ancora -. Questo è ciò che mi hanno detto, non ho alcun ricordo o quasi di questi momenti. Ero così drogata e scioccata da non ricordare quasi nulla. Mi risveglio dopo qualche ora. Mi guardo intorno, non sono in una camera di degenza. Sono in una stanzetta angusta, circondata da macchinari per la sterilizzazione degli attrezzi. Sono su una barella, con la camicia da notte ancora intrisa di sangue il cui odore mi pennetta fortissimo nelle narici, al braccio una flebo, il catetere attaccato, sola, abbandonata li. Chiamo qualcuno e chiedo perché mi trovassi li, mi dicono che non ci sono posti letto disponibili e che probabilmente avrei passato il giorno in sala parto. Mia figlia era nata alle 5 del mattino, in quel momento erano le 10. A 5 ore dal parto non solo non avevo un letto, non avevo ancora visto mia figlia, non sapevo quando l’avrei vista”.

“In seguito ho saputo che la mia famiglia ha smosso mari e monti per farmi avere un posto, un letto che è arrivato alle ore 17, dopo 12 ore dal parto. Arrivata in stanza ero totalmente immobilizzata a letto, chiedo gentilmente di essere lavata e cambiata, le infermiere lo fanno quasi schifate dicendo che avrei dovuto cambiarmi prima. Non ho le forze di rispondere, mi limito a dire che su una barella e col catetere attaccato potevo fare ben poco. Finalmente mi portano mia figlia, posso vederla e toccarla, ma non riesco neanche a girarmi su un fianco, figuriamoci sedermi e prenderla in braccio. Inizia a piangere per la fame, una ostetrica nervosa arriva, le schiaffa la sua testolina sul mio seno e me l’attacca malissimo. Dopo 20 minuti di tortura, la bambina si stacca. Il mio capezzolo perde sangue – continua Valentina -.  Quella notte mia madre scende in neonatologia a litigare per avere del latte, il mio seno sinistro ha una ragade e dal seno destro escono ancora poche gocce, la bambina urla dalla fame e si avventa su quel biberon come un assetato nel deserto. Il giorno dopo arriva la febbre a 38 e mezzo e ricominciano i rialzi pressori. Ma nessuno sembra darci importanza, qualcuno dice che è la montata lattea, altri la stanchezza del parto. Io non riesco ancora a mettermi in piedi mentre le infermiere e le ostetriche non mi dicono altro, di alzarmi, di camminare. Il tentativo di parto spontaneo mi ha causato un rigonfiamento spropositato nella zona pelvica, senza contare che continuo a perdere tanto sangue e inizio a chiedermi se sia normale. Il terzo giorno riesco faticosamente ad alzarmi e trascinandomi con l’ausilio di una sedia fino al bagno, finalmente mi lavo in modo decente. Mi guardo allo specchio, sono bianca come un cadavere e ho un aspetto orribile Quel pomeriggio, una infermiera viene in camera e mi chiede se sono pronta per la trasfusione. Le chiedo scioccata a cosa si stesse riferendo e le rispondo che non ne so nulla”.

“Arrivano dunque i medici che mi spiegano che la mia emoglobina era a 6, praticamente rischio infarto e che dovevo sottopormi subito ad una trasfusione di due unità di sangue.
Sono le ore 19, mi dicono di non cenare perché avrei potuto avere la nausea. Attendo la trasfusione per ore, la prima sacca mi viene attaccata alle ore 01.30 da una infermiera che mi dice che avrebbe “velocizzato” il più possibile, tanto che alle ore 4.00 circa io ho già terminato entrambe le sacche – spiega la donna -. Quella mattina, durante il giro visite, il medico di turno chiede il motivo del calo così repentino e netto della mia emoglobina e forse pensando di non essere ascoltato da me, chiede alla specializzanda che mi stava seguendo se mi fosse stato somministrato antibiotico o Methergin, il farmaco per la contrazione dell’utero. Lei gli risponde che no, dalla sala parto non era arrivata nessuna indicazione. Difatti, in quei tre giorni, non avevo avuto nessuna contrazione uterina, tranne nei pochi momenti in cui ero riuscita (con il paracapezzoli e piangendo dal dolore per la ragade) ad allattare. Questo aveva causato una perdita copiosa di sangue, causa o concausa del mio crollo di emoglobina. Insomma, avevano scordato questo piccolo dettaglio e io avrei potuto letteralmente lasciarci le penne. Il quarto giorno finalmente la febbre scende e sembra arrivare il latte in quantità più copiose. Ho ancora poche forze e riesco ad allattare poche volte al giorno, così inizio ad usare il tiralatte”.

“Il giorno prima mi era stata rimossa la peridurale, dopo una permanenza nella mia spina dorsale di circa 56 ore che mi teneva ‘addormentata’ la zona addominale tanto da confondere gli stimoli per andare al bagno e da rendere quasi insensibile al tatto la zona pelvica. Ma quel pomeriggio decidono di farmi la flebo di Methergin, al quarto giorno dopo il parto. L’infermiera stessa che mi attacca la flebo mi dice che non sa spiegarsi perché mi si faccia quel farmaco a 4 giorni dal parto e che me lo avrebbe tolto qualora non fossi riuscita a sopportarlo. Mi viene attaccata la flebo. Inizio a ricoprirmi di sudore mentre il dolore delle contrazioni arriva ad ondate sempre più forti. Dopo circa 1 ora non resisto più e me la faccio togliere, a patto però che io allattassi per stimolare la contrazioni e così faccio, pur con la ragade ancora dolente preferisco stringere i denti e piangere in silenzio che essere sommersa da quel dolore atroce – racconta -. Il quinto giorno faccio letteralmente finta di stare il meglio possibile e finalmente posso tornare a casa. Non mi danno alcuna terapia per la pressione alta, mi raccomandano solo di misurarla, 36 ore dopo sono di nuovo lì, pressione 200 su 100, mi danno un farmaco potentissimo che me la abbassa di colpo e mi sgonfia le gambe nel giro di 24 ore. In quei due giorni perdo quasi 4 chili di peso.
Il mio medico di famiglia a quel punto mi richiede analisi del sangue per valutare la funzionalità renale ed ecco cosa ne viene fuori. Insufficienza renale, pressione alta, intossicazione epatica”.

“Ora sto continuando le indagini mediche a spese mie, per cercare di venir fuori da questo tunnel. Dei 19kg presi in gravidanza ne ho persi quasi 14, tutto ciò in 18gg. Ho dovuto smettere di allattare sia perché non ne avevo le forze, ma soprattutto perché con il fegato intossicato il mio latte non era il massimo per mia figlia, mentre loro mi avevano detto che potevo allattare, anche se avevo tutti quei farmaci in corpo – conclude Valentina -. Ogni sera chiudo gli occhi e mi ritrovo in quella sala parto, con quelle persone che mi sgridano perché non sto spingendo abbastanza, con quel medico che sorride sprezzante alle mie suppliche dicendo ‘ora ci sono io e decido io cosa fare con lei’. Ogni sera chiudo gli occhi e piango, piango per lo choc, per il trauma, per il fatto che un momento tanto atteso, tanto desiderato e sognato si sia trasformato nel peggiore degli incubi. Qualche giorno dopo sono andata di persona dal mio medico curante, il quale mi ha detto senza mezzi termini che la mia situazione era delicata e che molto probabilmente avrei dovuto rivolgermi ad un nefrologo, che con quella emoglobina a 6, la proteinuria e l’albumina a 2 ho rischiato grosso e che la pre eclampsia sottovalutata e non curata ha messo in pericolo sia me che mia figlia. Tutto questo perché non sono stata presa sul serio, perché le mie parole sono rimaste inascoltate, perché sono stata trattata come una pazza invece che come una persona con un problema di salute pregresso alla quale prestare mezza attenzione in più o sulla cui patologia doversi informare prima di prendere decisioni o di iniettare farmaci inutili. Grazie mille maledette bestie per aver rovinato il momento più bello della mia vita e per aver reso i primi giorni di vita di mia figlia un vero inferno. Grazie mille alla giustizia italiana, per aver ritenuto ciò che mi è accaduto evidentemente giusto o normale. Io non mi fermerò, continuerò a parlare di violenza ostetrica, continuerò a denunciare, continuerò a lottare perché ciò che è accaduto a me non debbano subirlo altre donne”.