Torniamo a parlare del plasma iperimmune, su cui si sono puntati i riflettori per curare i malati affetti dal coronavirus. Amalia è una cittadina che ha contratto il covid, è guarita e quando ha scoperto di essere idonea alla donazione, ha preso appuntamento e si è presentata al centro trasfusionale.

“Riscontrando alcune risposte sulla diagnostica fatta dal medico – racconta Amalia – un altro medico, diverso da quello precedente, scopre che io non sono più idonea a donare il plasma iperimmune per via di reazioni allergiche avute 5-7 anni fa. A quel punto hanno preso dei manuali e si sono messi a confrontarli e consultarli dopo avermi fatto uscire”.

“Dopo qualche minuto – prosegue – mi hanno detto che mi avrebbero fatto sapere nel caso fossi stata idonea a donare; mi viene chiesto di firmare una dichiarazione, scritta dal medico, in cui si riportava la mia volontà di allontanarmi spontaneamente dal centro trasfusionale e rifiutare la donazione”.

“Mi sono incazzata – sottolinea – ho chiesto di cancellare quella dichiarazione e di riportare sulla mia cartella clinica la verità. Sono rimasta sconvolta, mi sono presentata volontariamente per un gesto che avrebbe potuto aiutare un paziente malato gravemente di covid e mi sono ritrovata in una situazione di ansia personale, non messa a mio agio. Sono rimasta sconcertata”.

“Vi dico sinceramente che non andrò più in quel centro trasfusionale – aggiunge -, perché non mi sento tranquilla; è un momento delicato e ci vuole un certo tatto da parte dell’equipe medica presente. Oltre che per il ricevente, mi sono sentita a rischio anche io”.

L’auspicio ovviamente è che situazioni del genere non succedano più, posto che la donazione è un atto da promuovere per il bene della collettività, di questo ne è convinta la stessa Amalia, nonostante l’esperienza traumatica vissuta: “Non rinuncerò a farlo”.