Rosa Maria Radicci, la donna uccisa a Palese lo scorso 13 novembre.

La Procura di Bari ha chiesto la condanna a 28 anni di reclusione per il 30enne albanese Ogert Laska, imputato dinanzi alla Corte di Assise per l’omicidio della 71enne Rosa Maria Radicci, uccisa nella sua villetta a Bari-Palese il 13 novembre 2016.

“Avrebbe voluto uccidere il suo datore di lavoro che lo aveva licenziato ma, non riuscendoci, si è vendicato ammazzando la madre”, ha detto nella requisitoria il pm Luciana Silvestris. La difesa ha ribadito l’innocenza dell’imputato, chiedendone l’assoluzione, evidenziando che in casa della vittima fu trovato anche il Dna di un altro uomo mai identificato, “probabilmente – ha detto l’avvocato Rocco Viggiano – quello del vero assassino”.

Stando alle indagini della Squadra Mobile e agli accertamenti medico-legali, l’anziana fu soffocata, poi strangolata e incappucciata con una busta della spazzatura. Il presunto assassino, che ha sempre negato di aver commesso l’omicidio e che anche oggi ha assistito all’udienza in cella, fu arrestato alcune settimane dopo il delitto grazie ai video di alcune telecamere di sorveglianza che lo avevano immortalato davanti alla villa della vittima.

L’accusa ritiene che l’abbia ammazzata per una vendetta nei confronti del figlio della donna che, alcuni mesi prima, lo aveva licenziato dal suo ristorante. Nel processo i due figli, la nuora e una nipote della vittima sono costituiti parte civile. Si tornerà in aula per repliche e sentenza il prossimo primo marzo.

“L’imputato conosceva bene la vittima – ha spiegato il pm alla corte – perché svolgeva per conto della donna piccole commissioni ricevendo in cambio anche regali per i figli; ma dopo il licenziamento, ad agosto, il 30enne, con il vizio delle slot-machine, cominciò a maturare motivi di risentimento”. Nella requisitoria l’accusa ha ripercorso le fasi delle indagini e ha evidenziato gli indizi raccolti, dalle intercettazioni telefoniche e registrazioni video alle dichiarazioni dei testimoni e di un ex compagno di cella dell’imputato, al quale il 30enne avrebbe confidato di essere l’autore dell’omicidio della signora Radicci, spiegando però che “il suo primo proposito – ha evidenziato il pm – era ammazzare il figlio che lo aveva licenziato”.

Agli atti del processo ci sono poi le prove scientifiche: le telecamere che immortalano l’imputato davanti alla villetta della vittima proprio al momento del delitto, le tracce di Dna trovate sugli indumenti e sotto le unghie della donna. Gli avvocati delle parti civili, Marilisa Lorusso, Antonio Lattazio e Maria Antonella Spadone, hanno sottolineato il danno causato ai familiari della vittima “ancora più irreparabile – ha detto l’avvocato Lorusso, che rappresenta il figlio della donna, Mimmo Minafra – per il rapporto di fiducia che c’era con l’imputato. Gli era stata tesa una mano, era stato accolto in casa, di lui si fidava al punto che gli aveva affidato la persona a cui più teneva al mondo, sua madre”.