“Cari amici, Vi scrivo perché in altre circostanze quando mi è capitato di farlo mi avete testimoniato in tanti il vostro affetto e la vostra attenzione e quando ho comunicato per caso ad alcuni la decisione di cui voglio parlarvi hanno mostrato sorpresa e meraviglia”. L’ex Rettore dell’Università di Bari, Corrado Petrocelli, inizia con queste parole un lungo post con cui ha comunicato, su facebook, il suo addio anticipato all’ateneo. Un congedo ben motivato e a lungo ponderato, stando a quanto scrive.

“Ieri si è consumato il mio ultimo giorno di servizio come professore dell’Università degli studi di Bari – annuncia -. Da oggi, I novembre, ho cessato il mio rapporto per dimissioni volontarie con ben cinque anni di anticipo. Perché? è la domanda che tutti mi rivolgono. Perché l’Ateneo (il nostro ateneo, una grande università) è stato molto di più che il luogo di lavoro: è stata casa mia per oltre 40 anni, sin da quando vi sono entrato come spaesato studentello di Lettere classiche, certo non figlio d’arte, e a conti fatti posso dire di aver trascorso lì più ore e giorni e mesi e anni che in qualunque altro posto. Lo è stato da subito. Vi ho costruito i miei studi, la mia carriera di giovane precario, ricercatore, professore, preside di facoltà, rettore”.

“A quel luogo – prosegue Petrocelli – sono ancorati ricordi indelebili e significativi: i sogni, le speranze, le fatiche, le difficoltà, le delusioni, le soddisfazioni. penso a come si sono trasformati i luoghi, ai colleghi che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare, ai maestri da cui ho tanto imparato (a Luciano Canfora devo un grazie particolare), alle tante università italiane e straniere che ho potuto conoscere, visitare e frequentare. e penso soprattutto agli studenti, ai laureandi, i tanti che mi hanno accompagnato in questi lunghi anni, la vera ricchezza del nostro mondo che rende, insieme alla passione per la ricerca, la nostra professione una delle più belle che ci siano”.

“A loro, agli studenti, alle mie lezioni non ho mai voluto rinunciare neppure negli anni di terribile impegno del rettorato: credo che uscire da un’aula con un numero di domande e di stimoli ben superiore a quello delle certezze con cui si era entrati costituisca – scrive – una delle più grandi soddisfazioni per un docente (ma la didattica purtroppo continua a essere la cenerentola delle nostre attività). Per questo li ringrazio, quei ragazzi e so che mi mancheranno, e molto: mi mancheranno la ressa dei primi giorni e gli sguardi smarriti e gli interrogativi delle matricole, i corridoi pieni di vita e di umori e di voci, le storie di ciascuno che inevitabilmente si confondono con le scadenze del percorso universitario, la felicità per l’esame superato, la commozione di candidati e familiari nel momento dell’esame di laurea o l’affetto e l’amicizia testimoniati a distanza di anni, magari per caso da chi è ormai un professionista affermato”.

“Dai testi invece, dallo studio che mi ha appassionato e impegnato – aggiunge – non intendo distaccarmi, anzi potermi dedicare senza l’oppressione di mille sempre più nuove e diaboliche e vacue burocratiche incombenze, è quasi un sollievo. Le speranze per un futuro diverso, anche per i settori delle scienze umane, per riforme finalmente ponderate e condivise, per criteri di valutazione equi, stabiliti con trasparenza e resi noti preventivamente, senza discriminazioni fra atenei, per la disponibilità di risorse adeguate alle esigenze del Paese, per comportamenti corretti e rigorosi di noi tutti – scrive l’ex Rettore, arrivando al nocciolo della questione – tutto ciò invece ha cominciato a mancarmi già da tempo”.

“I sette lunghi difficili anni di rettorato hanno costituito un’esperienza indelebile: non posso parlarne qui, ma prima o poi credo sarebbe utile e forse anche giusto raccontarne la storia. Ma molto di quanto è stato fatto non è bastato – considera – molto volutamente dimenticato: e quando non c’è non riconoscenza, per carità, ma neppure un parziale riconoscimento, l’amarezza è inevitabile. Così come è inevitabile lo sconcerto per una realtà governata ormai da formule e numeri, da richieste di montagne di adempimenti formali, una realtà in cui formiamo studiosi che non hanno spesso alcuna prospettiva all’orizzonte, ai quali si insegna che non è importante cosa ricercare e pubblicare, ma soprattutto dove, e come e in quanto tempo; in una realtà in cui la competizione è esasperata e selvaggia e si sviluppa già tra gli atenei e poi tra i dipartimenti e poi tra i singoli”.

“E la scarsa disponibilità di risorse non aumenta la coesione e la solidarietà, ma suscita faide e rivalità feroci e i provvedimenti non vengono discussi per mettere a fuoco nuove esigenze, nuovi metodi, nuove iniziative magari interdisciplinari, ma ci si appiattisce con rassegnazione sull’applicazione più pedissequa della normativa, sul rispetto passivo di paletti e recinti, mentre il marketing diventa terreno di battaglia fra gli atenei (pur di conquistare una posizione in una qualsivoglia classifica) e gli studenti sempre più spesso sono visti non come parte integrante della comunità, ma come clienti, consumatori da soddisfare con servizi adeguati, da formare magari secondo percorsi iperspecialistici finalizzati a rispondere a questa o quella logica di mercato”.

“Dentro una simile università – ammette amaramente – con tali prospettive mi trovo ormai a disagio (denuncio il mio disagio, non critico nessuno) e non vedo una grande futuro per il nostro sistema, se ormai incombe l’obiettivo di salvaguardare una élite di atenei e mandare gli altri in serie B”.

“Ciò non significa abbandonare l’impegno, la lotta cui non mi sono mai sottratto. Anzi: credo che l’esperienza di San Marino possa aiutare a credere che si può lavorare diversamente. E per la mia idea di università continuerò a battermi. Grazie dunque a tutti, grazie alla mia università a cui ho dato tutto me stesso senza risparmio, ma da cui ho avuto molto, molto di più. Cambia la formula, cambia lo status – conclude – ma l’impegno e la passione restano, più forti e radicati di prima”.