Si chiama Milo – così mi ha detto – ha dieci anni ed è uno splendido bambino di etnia Rom con gli occhioni grandi e i capelli a spazzola. Il nostro è stato uno scontro più che un incontro a ridosso di un cassonetto dei rifiuti in viale Kennedy. Io stavo per buttare una busta lui, invece, veniva fuori dal bidone dopo averci rovistato dentro per qualche minuto. Ho rischiato l’infarto, ma ho capito che neppure questo particolare momento economico ha messo un freno allo spreco.

Milo, con il sorriso sulle labbra, teneva stretta in mano una caffettiera. «Vedrai – ha assicurato rispondendo alla mia ovvia domanda in un perfetto italiano – funzionerà benissimo, voi state sempre a piangere e poi buttate le cose buone». Onestamente sono rimasto senza parole. Ha iniziato lui ad attaccare bottone. Era il suo decimo cassonetto della giorata, rovistato in compagnia del padre. Gli adulti indagano la superficie.

«La vuoi sapere una cosa? La mia bicicletta di spiderman l’ho trovata in un cassonetto di via Matarrese. Ce l’ho da maggio, bisognava solo cambiare una ruota». Pigrizia da benestante, che poi si lamenta di non riuscire ad arrivare con lo stipendio a fine mese; così, tanto per stare sul pezzo e far parte della massa davvero in difficoltà, che quella bicicletta l’avrebbe riparata esattamente come ha fatto lo zio di Milo.

«Molte delle cose che abbiamo dove viviamo (non sono proprio riuscito a farmi dire dove vivesse), sono prese dai cassonetti – mi spiega – Tre sedie, un divano, quache giocattolo». Senza contare i vestiti, quelli meriterebbero un capitolo a parte. Buttiamo cose che poi andiamo a ricomprare in alcuni mercatini caratteristici anche a prezzi maggiori rispetto a quello inziale. Sempre che non sia già passato Milo, convinto che la sua attività sia una cosa normale: «Serve alla mia famiglia oppure a quelle dei miei amici. Ce le scambiamo le cose».

Incuriosito chiedo cos’altro si trovi nei cassonetti. Sì, perché la notizia non è tanto che ci sia qualcuno che frughi tra i rifiuti, quanto ciò che si può trovare. «Non immagini, ci sono ombrelli a cui manca il manico, che recuperiamo da altri ombrelli e poi soprattutto elettrodomestici: tostapane, frullatori, robot da cucina. Una volta ho trovato un mp3. Mio zio aggiusta tutto. Prende pezzi da alcune cose e li mette per far funzionare altre. Lo devi conoscere».

Il padre di Milo, sempre che sia davvero suo padre, è qualche bidone più in là. Lo chiama: «Chaoro». Si prouncia ciaorò e dovrebbe significare figlio. La giornata è ancora lunga e non si può perere tempo. C’è da andare a scaricare la cassetta delle frutta legata al portapacchi della bici, utilizzata per trasportare il bottino della giornata. A quel punto Milo mi ha stretto la mano ed è sparito dietro l’angolo non prima di avermi regalato la caffettiera. Non sono proprio riuscito a portarla a casa per aggiustarla e farci il caffè, ma ci penserò due volte d’ora in poi prima di buttare oggetti apparentemente inutilizzabili.