Giorgio Ceccarelli e sua figlia

Il 12 agosto 1996 la Polizia mi fermò per un controllo ad Alatri, mentre ero in auto con mia figlia di 9 anni. Sotto il sedile trovarono 80 grammi di cocaina pura del valore di 100 milioni di lire. Mi ritrovai dietro le sbarre da innocente per un complotto ordito dalla mia ex suocera, per togliermi l’affidamento della bambina“. È inspiegabile l’odissea che Giorgio Ceccarelli ha vissuto sulla sua pelle, un inferno che ci si aspetterebbe di vedere sul grande schermo, magari con Liam Neeson nel ruolo di protagonista. Eppure la storia di quest’uomo non è cinematografia, ma una delle cospirazioni familiari più drammatiche degli ultimi 40 anni, in cui emerge quanto le dinamiche di coppia in fase terminale possano sfociare nella violenza, nell’alienazione parentale e diventare errore giudiziario, talvolta gesto disperato, in cui a soffrire sono sempre genitori respinti e figli strappati.

Nello sguardo di Giorgio si leggono ancora gli 8 giorni di carcere in sciopero della fame, si sentono le voci di chi sussurrava “guarda, l’avvocato della coca, quello che spacciava con sua figlia in macchina“, si avverte il misticismo di un episodio fortuito che è riuscito a sciogliere miracolosamente i nodi della sua innocenza, evitandogli 20 anni di carcere. Dopo la sua assoluzione, con la condanna della sua ex suocera e dei suoi due complici, Giorgio ha impiegato tutta la vita a trasformare la rabbia in battaglia civile fondando le associazioni “Figli Negati e “I Love Papà“, così come il movimento “Armata dei Padri“, sempre al fianco di migliaia di genitori perbene ai quali viene portata via la prole a causa di separazioni o divorzi travagliati, in cui una delle parti cova spesso una sete di vendetta che va ben oltre genere e colore.

Giorgio Ceccarelli

Giorgio raccontaci la tua storia
«Mi sono sposato nel 1987. Il mio matrimonio è durato 5 anni, la mia ex moglie mi ha lasciato per un altro e ci siamo separati nel 1992. Da quel momento in poi ho rifiutato ogni contatto con lei, continuando a vedere la mia bambina, rispettando le condizioni imposte dal giudice. Dopo un anno e mezzo la mia ex si è innamorata di un’altra persona con cui voleva andare a vivere in Grecia. Il 12 luglio del 1996 ha chiesto il passaporto per nostra figlia, per cui io non ho prestato il mio consenso. Un mese dopo, mentre la mia ex moglie era già all’estero con il suo fidanzato, io e la bambina eravamo in vacanza nella mia seconda casa ad Alatri. Quella sera la squadra mobile di Frosinone mi fermò per un controllo, c’è da premettere che qualche giorno prima era accaduto qualcosa di strano: avevano forzato la serratura della mia macchina, ma non avevano rubato nulla, motivo per cui decisi di non denunciare. Quando sono stato bloccato dagli agenti ero in auto con mia figlia, perquisirono il mezzo e trovarono sotto il sedile 80 grammi di cocaina purissima dal valore di 100 milioni di lire, un bilancino pronto per misurare la droga, mannite per tagliarla – sostanza di cui neppure conoscevo l’esistenza – e bustine per il confezionamento e lo spaccio. Mi colsero in flagranza di reato e fui portato in galera. Di punto in bianco, venni arrestato: un minuto prima avevo una vita normale, ero un praticante avvocato in attesa di sostenere l’esame di Stato, un attimo dopo più nulla. Mi ritrovavo dietro le sbarre da innocente, ad agosto con un caldo mostruoso, in una cella di 3 metri per 3, rischiando 20 anni di reclusione. Avevo già capito che quel complotto della coca era stato studiato dalla mia ex moglie e dalla sua famiglia per distruggermi, ma sapevo che nessuno avrebbe mai creduto alle mie parole. Decisi di firmare il rifiuto del cibo per protesta, trascorsi 8 giorni  bevendo solo l’acqua di rubinetto del carcere. Il mio avvocato mi consigliò di ammettere il possesso di droga per essere scarcerato, mi rifiutai categoricamente di confessare qualcosa che non avevo commesso. Il giorno dopo il giudice confermò il fermo, io collassai in aula e mi portarono in ospedale in una stanza di sicurezza. Il 14 agosto, mentre ero ricoverato e sorvegliato dalle guardie, un maresciallo dei Carabinieri e un magistrato di Alatri, che, però, non si occupava del mio caso, andarono a cena. Quella sera vicino al loro tavolo c’era un gruppo di giovani che rideva e commentava il mio arresto, i titoli di giornale in cui si parlava di me, la mia foto segnaletica in prima pagina quasi fossi Totò Riina. Uno dei ragazzi disse: ‘Questo dice che è innocente e che è stata la moglie, pensa te, se domani anche tua moglie ti mette la droga in macchina e ti arrestano’. Bastò quella frase per insinuare il dubbio. Il maresciallo ascoltò i loro discorsi e si complimentò con il magistrato per il mio arresto, che però rispose di non saperne nulla, spiegò come non fosse stato merito loro, ma tutto dovuto a una segnalazione partita da un altro maresciallo della Guardia di Finanza di Roma, lo stesso che, guarda caso, in quei giorni si era recato da tanti altri colleghi finanzieri del circondario. Il magistrato chiamò il pm che mi aveva confermato il carcere, spiegandogli che avrebbero dovuto interrogare questo maresciallo della Finanza che mi aveva denunciato per scoprire chi fosse la fonte che aveva fatto il mio nome. Il pm a quel puntò interrogò il finanziere, che tra false testimonianze e incongruenze, cedette, raccontando che la notizia gli era stata data da un detective, un suo amico, che lavorava proprio per la mia ex suocera ed era stato incaricato di seguirmi ad Alatri per rendersi conto dei comportamenti che avevo con mia figlia. Così interrogarono anche il detective e la mia ex suocera; sentirono separatamente tutti e tre e le loro versioni non coincidevano. La nonna della mia bambina confessò tutto, raccontò che aveva pagato un detective per incastrarmi, e che mi avevano infilato in auto la droga giorni prima, proprio la sera in cui avevo trovato la macchina forzata: volevano farmi arrestare prima del loro volo per Atene così da liberarsi di me. Dopo 8 giorni di sciopero della fame e preghiere a Padre Pio venni scarcerato; appena tornato in libertà mi recai a San Giovanni Rotondo, dove un francescano sentendo la mia storia agghiacciante decise di inserirmi nell’elenco delle persone miracolate dal Santo».

Qual è stata la condanna per la tua ex suocera e i suoi complici?
«Il Tribunale di Frosinone condannò la mia ex suocera a 9 anni, l’investigatore a 9 anni e il maresciallo della Finanza a 6 anni e sei mesi, pur essendo coinvolte altre 7 persone mai indagate. Fu disposta una provvisionale di 100mila euro per me, in pratica l’acconto del risarcimento danni che avrei dovuto avere, ma di fatto ho ricevuto in totale solo 30mila euro. In appello a Roma, dopo 10 anni, venne ridotta la pena per i colpevoli a 3 anni di carcere, il finanziere fu espulso dalla Guardia di Finanza dopo qualche tempo. È paradossale che io da innocente sia stato arrestato immediatamente, mentre loro siano rimasti a piede libero per tutta la vita. Ho vissuto l’inferno, non ho più potuto fare l’esame d’avvocato, ho subito l’umiliazione dei titoli di giornale, dell’arresto dinanzi alla mia bambina di 9 anni, delle foto segnaletiche, delle impronte digitali. Ci ho rimesso tutto, eppure quei tre nulla, non hanno scontato nemmeno un giorno di carcere. Lo Stato aveva il dovere non solo per legge, ma per morale pubblica, di far capire che nessuno può permettersi di mandare in galera un innocente, invece così ha dimostrato che chiunque abbia un nemico da distruggere può farlo, senza temere il prezzo da pagare alla giustizia. Questo non è un errore giudiziario come un altro, ti segna per sempre. Per me la giustizia italiana è morta».

Come hanno reagito i media dinanzi alla tua innocenza?
«Alla fine del processo, dopo circa 10 anni, ha continuato ad abbattersi una incredibile disinformazione sul mio caso. Una volta scoperta la mia innocenza, avrebbero dovuto scriverne, spiegando come erano andati i fatti, ma non è andata così. Quando è arrivata la condanna dei colpevoli nessun giornale voleva pubblicare i nomi né le pene. Sono stato per giorni con un cartello davanti ai cancelli di molte redazioni nazionali, chiedendo che venisse data la notizia della conclusione del processo. Il mondo dell’informazione mi rispondeva che la storia era ormai vecchia, che era di rilevanza locale perché accaduta ad Alatri e non a Roma; peccato che quando mi davano per colpevole ne parlò e scrisse tutta Italia. Invece, della mia assoluzione e innocenza pareva non importasse più a nessuno. Ci fu una testata importante che prima di pubblicare la notizia ci mise 8 giorni, ma solo perché mi appostai sotto la sede della loro redazione con il megafono».

Un aspirante avvocato che stava per farsi 20 anni di carcere da innocente. Che significa trovarsi dall’altra parte della barricata senza aver commesso il fatto?
«La cosa grave è che non avevo la possibilità di dimostrare la mia innocenza, pur sapendo chi c’era dietro quel complotto. Essere innocente e non sapere come fare per difendersi è lacerante. Il mio incubo non si è concluso dopo la scarcerazione, io sono stato malissimo, sentivo addosso lo sguardo della gente che credeva fossi ‘il mostro’. Quando sono uscito dal carcere portavo sempre in tasca il documento dell’archiviazione in cui si dichiarava che ero estraneo ai fatti. Giravo con questo foglio perché le persone per strada mi evitavano, facevano finta di non vedermi, temevano di essere viste in mia compagnia, mentre salutavano ‘l’avvocato della coca’. Allora le inseguivo, le fermavo e tiravo fuori questo documento, urlando: ‘Devi sapere che io sono innocente, sono estraneo ai fatti, questo è l’atto protocollato e originale, i colpevoli sono altri’».

Hai mai provato un desiderio di vendetta nei confronti di chi aveva cercato di incastrarti?
«Non nascondo che dopo il carcere una parte di me ha pensato di vendicarsi, ma ho capito che dovevo incanalare quella rabbia, impiegarla nella mia rinascita, e per farlo avevo bisogno di aiutare gli altri; così ho cercato in qualche modo di cambiare l’Italia. Tutto il dolore che avevo dentro l’ho trasformato in lotta accanto ai padri, quei genitori a cui vengono strappati tutti i giorni ingiustamente i figli. Solo facendo del bene riesci a dimostrare agli altri che vali e ami tuo figlio. Perché anche se lì per lì avresti voglia di uccidere il tuo ex o la tua ex che ti ha rovinato la vita, il tuo amore è più grande, tuo figlio non merita di avere un padre o una madre sotto terra e l’altro genitore in galera. Con la vendetta si creano solo disastri nei disastri. Per questo 26 anni fa ho fondato l’associazione ‘Figli negati‘, senza quote associative per statuto, e ‘Armata dei padri‘, un movimento pacifista, con cui abbiamo fatto eventi in tutto il mondo, arrivando addirittura in Corea del Sud».

Quali sono alcune delle vittorie raggiunte dalle tue associazioni?
«Ti racconto alcune storie emblematiche. Un giorno mi telefonò un padre separato di Gela a cui la sua ex moglie negava di vedere le tre figlie. Quest’uomo mi chiamò e mi chiese una mano, perché non sapeva nemmeno se fossero state bocciate; il direttore della scuola delle bambine gli aveva detto che la sua ex compagna si opponeva a fargli avere notizie sul loro andamento scolastico, impedendogli di parlare anche con i professori. Allora gli consigliai di venire a Roma, perché avrei potuto aiutarlo; in quell’occasione abbiamo manifestato con una ventina di genitori davanti al Ministero dell’Istruzione e nel dicembre 2005 il ministro emanò una circolare scolastica per le scuole pubbliche e private in cui veniva sancito che entrambi i genitori separati avrebbero avuto la possibilità di ricevere una copia delle pagelle dei loro figli, potendo andare ai colloqui con i docenti. L’educazione per il rispetto dei padri deve partire dalla scuola, ma se l’istituzione impedisce all’uomo di fare il padre, danneggia i ragazzi, nonché i futuri cittadini. La base di partenza per un mutamento normativo è la cultura. Poi con l’armata dei padri anni fa abbiamo protestato davanti al Ministero delle Pari Opportunità tutti vestiti da donna, una provocazione in risposta al fatto che spesso movimenti come il nostro non vengono ascoltati, a meno che non siano composti da madri e donne. In quell’occasione mostrammo uno striscione che recitava: ‘L’Italia vede solo rosa’. Dopo poco ci ricevettero, in quella sede chiedemmo per la prima volta nella storia una casa famiglia per i papà separati».

Il nuovo Governo ha in progetto una “Giornata nazionale dei figli” che dovrebbe ricorrere il 15 giugno. Eppure tu ne parli ormai da 13 anni…
«Tutto nacque il 15 giugno 2010, quando io e altri dieci padri ci presentammo in piazza Montecitorio con lo striscione ‘Festa nazionale dei figli‘, chiedendo allo Stato l’istituzione di questa festa, in rispetto delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. La festa dei figli esiste anche nei Paesi musulmani; pensate che in Tunisia il primo giorno dopo la fine del Ramadan viene dedicato interamente a loro. La cultura e il rispetto del figlio c’è ovunque, a prescindere dalla religione. Da 13 anni insisto per l’istituzione di questa festa, che in alcuni comuni d’Italia, come adesso in Campania, è stata già approvata. Qualche anno fa il senatore Pillon ha presentato un disegno di legge per istituirla in tutta la nazione, all’epoca non l’hanno accettata ed è rimasta nel cassetto del Senato. Pochi mesi fa, il senatore Andrea De Priamo ha presentato ancora una volta questa iniziativa, intitolandola ‘Giornata nazionale dei figli d’Italia’. Anche se il titolo è leggermente cambiato, sono molto contento che finalmente la mia idea possa diventare realtà. In merito a questo, giovedì 15 giugno, dalle 10 alle 11, ci sarà una conferenza stampa nella Sala Nassyria del Senato della Repubblica, in cui, proprio su iniziativa del senatore De Priamo, verrà presentata ‘L’Istituzione della Giornata dei Figli d’Italia‘».

Il Governo Meloni punta spesso sul concetto di famiglia, parla di inverno demografico, dell’urgenza di sostenere le madri che vogliono realizzarsi nel lavoro, senza dover rinunciare a nulla. Si continua a non parlare di padri…
«Esatto, nessuno parla di padri. Uno dei modi per tutelare i padri è l’introduzione in Italia del contratto prematrimoniale. Un atto che esiste già negli Stati Uniti e salvaguarda da separazioni o divorzi non egualitari. Lì quando ci si separa si va davanti a un giudice con un contratto firmato prima del matrimonio in cui è già scritto cosa succederà se quella coppia si separerà; è tutto regolato e deciso, ci sono delle condizioni stipulate e questo consente che ci si sposi in serenità. Perché può capitare che due persone non si amino più, ma è importante che si sappia a cosa vanno incontro, soprattutto per tutelare i figli. Qui in Italia la tua vita viene messa in mano a un giudice che non sa niente della storia di coppia né genitoriale e deve decidere quale sarà il destino di quella famiglia. È una follia; il contratto prematrimoniale è necessario. Se in Italia vi è un grave inverno demografico è perché la gente ha paura di mettere al mondo figli, che non vengono protetti dallo Stato. Oltre al fatto che lo stesso tipo di garanzie mancano anche per le donne che si ritrovano a desiderare un bambino, sapendo però che potrebbero perdere il lavoro, che dovranno spesso rinunciare a prospettive di carriera, privandosi di ogni ambizione. Il contratto prematrimoniale salvaguarda entrambi i genitori, li mette al riparo da pretese future ingiuste».

Hai mai pensato di sposarti di nuovo?
«Non mi sono più sposato e ho fatto benissimo, ora sono un dipendente comunale, ho una casa di mia proprietà e sono sereno. Se la mia ex moglie non fosse stata abbiente si sarebbe presa la mia abitazione, ci avrebbe portato anche il suo nuovo compagno e io sarei dovuto andare da mia madre. È normale che una donna si rifaccia una vita, è giusto sia così, ma non è corretto che l’ex marito poi vada via da casa sua e magari si ritrovi a vivere da quei genitori che hanno fatto dei sacrifici per comprargli quella proprietà, ora abitata anche da un altro uomo. È assurdo, ma è una cosa che capita quotidianamente, ho visto migliaia di casi in 26 anni. Lo Stato deve dare la possibilità ai cittadini di sposarsi in sicurezza e per farlo è necessario un contratto prematrimoniale che metta in chiaro le cose».

Nel 2006 è arrivata la riforma dell’affido condiviso, per garantire il rispetto del principio di bigenitorialità. Tuttavia molti tribunali continuano a privilegiare l’affido esclusivo del minore a uno dei genitori. Perché?
«Bella domanda, questo è un tema importantissimo. Ci sono dei magistrati che applicano la vecchia legge, è come se per loro non esistesse l’affido condiviso. Dare la possibilità a un padre di vedere suo figlio solo per un giorno o due a settimana crea un danno mostruoso. Qualche esperto dice che è meglio la qualità della quantità, ma non basta, perché i bambini e/o ragazzi si abituano all’assenza del padre, crescono senza di lui, imparano a farne a meno. L’affido condiviso serve a evitare che venga a mancare la famiglia, il collante fondamentale, e i giudici devono comprendere che non considerandolo come prima scelta procedurale stanno massacrando genitori e soprattutto figli. Faccio un esempio; in America hanno fatto uno studio in un carcere minorile, dimostrando che l’80% dei detenuti presenti è cresciuto senza il padre. Il maschio inizia a delinquere se non c’è il papà che lo controlla, perché l’uomo teme la figura paterna, molto di più rispetto a quella materna, che è più accomodante e affettuosa. In Svezia hanno dimostrato che le famiglie in cui i genitori vanno d’accordo stimolano a una crescita sana, mentre i litiganti creano generazioni di giovani instabili e avvezzi al consumo di alcool e droghe. Una banca dati così in Italia non esiste, studi del genere qui non se ne fanno, e questa carenza di informazioni sul tema non ci permette di trovare soluzioni per arginare il fenomeno».

Per le donne separate esistono delle comunità, delle strutture di accoglienza, mentre per i padri quasi nulla. Come mai?
«Per merito nostro c’è una casa internazionale del papà a Roma, fondata nel 2010. Ci sono altre città che ne hanno, come Milano, ma il progetto che avevamo in mente noi era molto diverso. Non basta dare 20 alloggi a 20 papà separati, quella è solo una goccia nell’oceano. Bisogna creare una struttura vera e propria, in cui ci siano stanze, un ristorante, un bar, una sala comune, come esistono nelle strutture di accoglienza per le donne. Bisognerebbe avere anche il punto di vista delle case dei papà, con altrettante statistiche e che, come i centri antiviolenza per le donne, vi sia un call center pronto ad ascoltare gli uomini che ne hanno bisogno. Ogni casa internazionale dei padri dovrebbe poter immagazzinare dei dati come si fa per i femminicidi o i casi di maltrattamenti contro le donne, solo in questo modo si riuscirebbe a prevenire la violenza di genere. Per quanto riguarda le case famiglia per le donne che hanno subito violenza credo che vada rovesciato il modo in cui in Italia cerchiamo di proteggere le vittime. Quando le donne subiscono violenze da parte dei loro conviventi vengono messe in case famiglia con i loro figli e il giudice stabilisce per l’uomo una distanza di sicurezza da rispettare. Purtroppo, però, l’uomo violento non ha paura della legge, né di finire in galera e spesso continua a cercare la compagna per vendicarsi; quest’uomo va disinnescato prima e solo così si hanno molte più probabilità che poi venga curato e possa riprendere una vita normale. Ecco perché la soluzione non è rinchiudere le donne e i loro figli in case famiglia. La vittima tra i due è la moglie e dobbiamo proteggerla, piuttosto bisogna mettere gli uomini pericolosi in queste strutture di sicurezza, metterli in condizioni di non poter far del male a nessuno e di curarsi. Non è un carcere, sarebbero liberi, ma verrebbero protetti, seguiti da psicologi e psichiatri che li aiutino a capire qual è il problema. Il violento è solitario, non si sfoga, si sente perseguitato, diventa paranoico e la solitudine fa aumentare il suo stato di pericolosità. Una persona del genere la disinneschi con il dialogo, mettendola in un luogo in cui possa parlarne, non lasciandola da sola a rimuginare, a pianificare vendette o atroci piani. Se vogliamo risolvere il problema della violenza contro le donne dobbiamo analizzarlo, capire perché quell’uomo è impazzito, perché è violento, perché ha fatto una strage. Le persone non sono numeri, non possiamo ridurre il tutto a un assassino in più o una vittima in più, c’è un mondo dietro da prevenire. Va ovviamente condannato anche il fenomeno delle false denunce, di tutte quelle donne che per ripicca o vendetta si inventano di sana pianta di essere state maltrattate o violentate dai mariti, che li accusano di pedofilia, denunce che finiscono per far del male alle vere donne che hanno subito violenza. Questi casi vanno individuati e determinate persone vanno punite severamente, la legge non può farla passare franca, perché altrimenti ci saranno tante altre donne che penseranno di poter far del male a un uomo senza dover rischiare nulla».

Ci sono padri che non sono riusciti a sopportare l’allontanamento dai figli e si sono tolti la vita. Suicidi di cui quasi nessuno parla
«Con la mia associazione abbiamo fondato il ‘Memorial day’ in ricordo dei papà che si sono suicidati per la mancanza dei figli. Il 7 aprile del 1996 Antonio Sonatore, un maestro elementare di Aosta si diede fuoco davanti al Tribunale perché non gli facevano vedere la figlia. Dieci anni dopo nel 2006 mi chiamò un giornalista per dirmi che ci sarebbe stato il decimo anniversario della sua morte. Da allora ogni anno il 7 aprile facciamo una manifestazione in memoria di questi uomini invitandoli a non mollare, perché togliersi la vita non è la soluzione, come non lo è far del male alle loro ex mogli. Quando poi si tratta di padri che si sono suicidati perché non potevano vedere i loro figli nessuno parla mai del reato di istigazione al suicidio. Se tu donna nascondi i figli a un padre, lo umili, gli fai passare l’inferno, questa non è un’istigazione al suicidio? Credo sia un aspetto importantissimo. Significa far finta di non vedere che c’è qualcosa dietro questi gesti disperati, eppure il motivo è sempre lo stesso: gli è stato negato di poter vedere crescere i loro figli».

In questi 27 anni sei riuscito a recuperare il rapporto con tua figlia? 
«Le ho nascosto sempre tutto del processo, ho cercato sempre di proteggerla. Appena uscito dal carcere dissi a mia figlia che le accuse nei miei confronti erano partite da qualche delinquente che mi aveva fatto un dispetto, lei ha scoperto la verità leggendo alcuni articoli di giornale. Oggi mia figlia fa l’avvocato, quello che avrei dovuto fare io, ha realizzato il mio sogno e abbiamo un bellissimo rapporto. Non ho mai parlato male della mia ex moglie davanti a lei, ho sempre cercato di rispettare sua madre, nonostante mi abbia rovinato la vita. Ciò che dico sempre a tutti i genitori separati è di non parlare mai male dell’ex partner davanti ai figli, perché si finisce solo per far del male a loro e a noi stessi. Sai che forza ci vuole!? Ma se ci sono riuscito io ci possono riuscire tutti. Non si può crescere un bambino inculcandogli l’odio per una persona che ama, è una tortura psicologica, un dolore troppo grande da sopportare. Mi piace pensarla come il grande Luther King, pioniere delle lotte civili nel mondo quanto Pannella in Italia, che asseriva: ‘Fino a che tutti non sono liberi, nessuno è libero’. Ecco, vale lo stesso per madri e padri: ‘Fino a che tutti non sono genitori, nessuno lo è‘».