Era il 1979 quando Giovanna (nome di fantasia) partorì il suo terzo figlio in un famoso ospedale pugliese. Ricorda come se fosse ieri che in un’ala di ginecologia, proprio di fianco alla sua stanza, c’erano “stipate“ decine di donne che avevano da poco abortito o erano in procinto di farlo, relegate tutte insieme quasi fossero un pericolo per le neomamme, ombre oscure in grado di plagiare le puerpere. Giovanna racconta il momento esatto della giornata in cui lo sguardo di quelle ragazze, già provate dalla scelta di aver interrotto la gravidanza, si spegneva. Perché ogni pomeriggio quel reparto diveniva corsia di suore che si affacciavano nelle stanze delle partorienti e delle madri per benedire loro e i nuovi nati.
Una carezza per i piccoli e un augurio per la mamma che aveva portato a termine il suo compito riproduttivo, che aveva scelto di dare alla luce una vita e controfirmato il disegno divino. Due passi più in là le spose di Cristo si imbattevano negli stanzoni delle “peccatrici“, di coloro che avevano scelto di non mettere al mondo quel figlio, che non era il momento, non c’erano i soldi, non se la sentivano, non avevano il partner giusto, preferivano prima realizzarsi nel lavoro e magari non avvertivano alcun istinto materno. Le sorelle tenevano a bada anche la coda dell’occhio per evitare di incrociare quelle donne, stringevano i piedi, serravano le mascelle e si mantenevano a distanza di sicurezza dalla soglia delle loro camere, come fossero buchi neri infernali pronti a inghiottire le anime pie.
Era il 1979 quando Giovanna diede alla luce Roberto (nome di fantasia), a solo un anno dalla legge 194 che ha disciplinato in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza nei casi previsti dalla legge, ovvero nei primi 90 giorni di gestazione e tra il quarto e quinto mese se vi sono effettivi motivi di natura terapeutica per il feto o la gestante. Sono passati 45 anni da quella conquista, che ormai dovrebbe essere stata ampiamente superata e non dovrebbe esser più considerata una straordinarietà, e le donne che decidono di abortire non sono più isolate in camerate di un reparto di ginecologia, ma si ritrovano comunque a dover schivare i colpi di chi vorrebbe comprare le loro libertà e tornare a isolarle, catalogarle, farle sentire colpevoli solo per aver esercitato i propri diritti riproduttivi.
Siamo sempre in Puglia e lo scorso martedì, 18 aprile, la Regione ha deliberato in Giunta un aiuto economico di 5mila euro da applicare nei prossimi 18 mesi per tutte “le donne in condizioni di difficoltà che hanno deciso di portare a termine la gravidanza e che si rivolgono ai consultori, ai Comuni o alle strutture specializzate per ricevere un sostegno“. Così si è espressa l’assessora al Welfare Rosa Barone, tra le fila del Movimento 5 Stelle, e promotrice di questa delibera. Ma non finisce qui, perché la misura prevede che debbano essere “schedate“, sì avete capito bene, schedate dai consultori pugliesi tutte le donne che richiedono un’IVG, in modo tale da avere una lista di nomi e cognomi di gravide a cui proporre la somma di denaro per rinunciare all’aborto e alla propria autodeterminazione. Fa raggelare il sangue che una proposta del genere, mascherata da politica per scongiurare la denatalità, sia stata appoggiata da una donna e che sia stata partorita in teoria da un’amministrazione regionale di centro-sinistra, che a questo punto è evidente abbia venduto l’anima al conservatorismo del Governo Meloni e si stia affumicando di arie viziate di una destra radicale e a tutti i costi pro-vita. Tra l’altro questa delibera ricalca il tentativo già messo in atto dall’amministrazione regionale di Raffaele Fitto circa 20 anni fa con la L.r. n.5/2004, quando si propose di dare un contributo economico alle donne regolarmente sposate che dichiarassero di voler rinunciare all’aborto.
Il dietrofront della Regione Puglia
Le associazioni “Giusta causa”, “Rete delle Donne Costituenti – Puglia“, la consigliera regionale del Pd Lucia Parchitelli e un’ala degli ultimi brandelli di sinistra sono insorte facendo sentire la loro voce contro questa imbarazzante e oscurantista iniziativa, tanto che Michele Emiliano ha deciso di intervenire, sospendendola piuttosto maldestramente e mettendoci una toppa che rende ancora più evidente la voragine di quel ricatto. Il governatore pugliese, che si è detto non a conoscenza dei dettagli del provvedimento predisposto da Barone, ha annunciato l’intenzione sostituire per ora quei 5mila euro con una “misura sperimentale di supporto alla natalità“, proponendo un aiuto economico per l’acquisto del corredino con annesso sussidio di 12 mesi per la donna che vorrà diventare madre e prendersi cura del pargolo. Come se si decidesse di abortire solo per mancanza di soldi e non per milioni di altri motivi… poi, mettiamo il caso che lo si faccia per una questione economica, di certo non basterebbe la promessa di una serie di lenzuolini e camicine della fortuna e un contributo di un anno per far sentire ogni donna pronta alla maternità, ad assumersi la responsabilità di crescere un figlio per poi vederlo camminare a testa alta sulle sue gambe.
La proposta antiabortista pugliese, al momento congelata, ha fatto sprizzare gioia da tutti i pori ai leader leghisti regionali e nazionali, tanto da ricevere il plauso di Matteo Salvini. “Sostenere le donne che decidono di non abortire e quindi aiutare la vita di bambine e bambini è cosa buona e giusta – ha commentato il vicepremier su Twitter -. Come fa la sinistra a fare polemica anche su questo? Che la Regione Puglia di Emiliano non si arrenda e prosegua su questa strada di inclusione, sostegno e generosità. Evviva la vita!”. Un’esultanza che conferma come i moti progressisti pugliesi siano praticamente in uno stato comatoso irreversibile.
Aifa approva la gratuità della contraccezione orale
E pensare che ci ritroviamo a demonizzare le scelte di chi è madre, di chi non lo è e vorrebbe esserlo, e chi invece non vorrebbe mai, comprandole per boicottarne la libertà di riprodursi negli stessi giorni in cui l’Agenzia italiana del farmaco ha approvato la gratuità della contraccezione orale per le donne di tutte le fasce d’età. Una svolta epica per l’Italia, da sempre terra di bigottismi, tabù e clericalismi in tema di salute sessuale. Le casse dello Stato spenderanno circa 140 milioni di euro l’anno per coprire i costi delle pillole anticoncezionali. Eppure in Puglia, come in Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Piemonte, l’amministrazione regionale si è autonomamente preoccupata da anni di coprire le spese della contraccezione, e questo fa venire il dubbio che sia legittimo per le autorità politiche del tacco d’Italia scegliere prima della fecondazione e non lo sia più dopo, come se una volta incinta non si possa più disporre di se stesse, non vi siano margini per imboccare dolorosamente o meno strade alternative, non ci possano essere ripensamenti sul sentirsi in grado in quel dato momento di diventare genitori. A questo punto sorge una domanda: l’anacronismo della delibera antiabortista va considerato il frutto della direzione filogovernativa intrapresa dalla Giunta pugliese, uno scivolone da dimenticare o il riverbero di un’atavica mentalità dei nostri amministratori?