“In questi giorni mi ha fatto male sentire i ringraziamenti per tutte le componenti della medicina, tranne che per il 118. Il servizio di emergenza viene dato per scontato, come se da un anno a questa parte non stessimo affrontando un’emergenza nell’emergenza. Durante la pandemia solo noi siamo entrati nelle case delle persone malate di Covid, portando avanti un’azione di deospedalizzazione vitale per il sistema sanitario, perché abbiamo visitato i pazienti e, collaborando con il medico di famiglia, abbiamo potuto definire la terapie e ricoverare solo coloro che non potevano essere trattati a casa. Eppure, nessuno né a livello nazionale né a livello regionale ci aveva detto come procedere, ci aveva fornito delle linee guida. L’impatto del nostro lavoro sulla riduzione dei ricoveri non indispensabili è un aspetto importante che non è stato valorizzato dal sistema”.

Inizia così la lettera di Roberta Ladisa, medico del 118, impegnata in prima linea a Bari come molti suoi colleghi in questi mesi di emergenza pandemica.

“La difficoltà maggiore è interfacciarsi con la centrale operativa: non abbiamo un canale radio, usiamo i cellulari e chiamiamo lo stesso numero dell’utenza, che ovviamente di questi tempi deve gestire un carico enorme di chiamate – si legge -. Così mi capita di dover rimanere al telefono, in attesa per ore anche solo per richiedere l’intervento di un’ambulanza per il ricovero di un paziente Covid che ho raggiunto con l’auto medica. E se sei intervenuto per un infarto o un incidente stradale, i tempi sono fondamentali. In questo periodo non siamo stati n grado di dare assistenza e soccorso ai pazienti non Covid. Nella prima ondata la gente aveva così paura che non chiamava proprio il 118. Ora invece chiamano ed emerge così il paradosso della pandemia: il sistema sanitario non garantisce assistenza ai malati non Covid. E rispetto alla prima fase troviamo gli stessi disservizi e la stessa cattiva organizzazione”.

“Un altro grande problema è l’attesa in ambulanza fuori dal pronto soccorso. Ci è capitato che la Centrale operativa ci rispondesse: ‘Vai dove vuoi, tanto non c’è posto da nessuna parte’. E ci siamo trovati con pazienti Covid con insufficienza respiratoria a bordo, ad attendere dalle 3 alle 6 ore fuori dal pronto soccorso, finché l’ossigeno del mezzo di soccorso non si è esaurito – spiega -. Talvolta i pazienti sono stati ricoverati sulla nostra barella, per cui l’ambulanza è rimasta ferma finché non si è liberato un posto letto. Ci siamo trovati a intervenire in situazioni ‘dimenticate’ dal sistema, come una RSA in cui vivono 26 suore che inspiegabilmente non sono ancora state vaccinate o tutti gli over 80 che non riescono a muoversi e non sono ancora stati raggiunti dalla vaccinazione a domicilio. Una serie di compiti sono ricaduti sul sistema emergenza, perché solo noi potevamo andare a casa dei cittadini. E il sistema ha retto proprio grazie al 118, che si è caricato l’assistenza territoriale sulle proprie spalle. Eppure, siamo stati dimenticati da tutti”.

“Il nostro è un lavoro duro. In questo periodo di emergenza Covid ci vestiamo dalle 6 alle 8 volte al giorno. Nessuno ci ha fatto formazione sulla vestizione: abbiamo imparato da soli, guardando i video dello Spallanzani. E ci siamo autotassati per comprare sapone e carta asciugamani che non c’erano – continua il medico -. Inoltre, dobbiamo procedere dopo ogni trasporto alla sanificazione dei mezzi, che avviene solo in pochi centri: ci capita regolarmente di fare per esempio un intervento a Casamassima e di dover tornare al Di Venere per la santificazione del mezzo. Vuol dire chilometri e tempo: ogni intervento finisce col durare non meno di 2 ore e a fine giornata abbiamo percorso almeno 200 chilometri”.

“Di questo periodo difficile mi rimane una grande esperienza umana: quando siamo entrati nelle case di anziani soli ci hanno chiesto di preparare i loro indumenti ‘buoni’ per andare in ospedale, abbiamo raccolto i loro effetti personali in una borsa, abbiamo etichettato tutto con il loro nome e imparato a trascrivere i numeri di telefono sui referti. Siamo noi che abbiamo chiuso casa loro e abbiamo preso le chiavi, che abbiamo visto migliaia di persone poco prima che morissero. Ci siamo ritrovati a vegliare anziani morenti insieme ai loro parenti conviventi, attorno al letto, in attesa di certificare il decesso – afferma -. È stato umanamente toccante, bellissimo e terribile al tempo stesso. Eppure non esiste nessun servizio di supporto psicologico. Facciamo i debriefing tra di noi, per aiutarci a vicenda”.

“Amo il mio lavoro ma credo che me ne andrò non appena ne avrò la possibilità, come già hanno fatto molti colleghi. È una lavoro pesante, con turni e reperibilità, difficile da portare avanti se non sei giovane – conclude -. Inoltre, a fronte di un rischio elevato, ha livelli di remunerazione inferiori a quelli degli altri medici e non offre alcuna tutela, come molti di noi si sono resi conto nel momento in cui si sono ammalati di Covid: quando sono stata in quarantena perché un altro membro dell’equipaggio è risultato positivo non ho avuto diritto né all’infortunio, né alla malattia. Mi è stata riconosciuta la malattia solo grazie ad un intervento straordinario dell’Enpam legato all’emergenza sanitaria. Il Covid ha messo a nudo tutta una serie di criticità contrattuali che erano presenti anche prima, ma che molti di noi non sono più disposti a tollerare”.