A metà novembre i genitori di una donna di Gravina in Puglia, con centinaia di casi di coronavirus, iniziano ad avere i primi sintomi. L’anziana coppia viene sottoposta al tampone con esito positivo. Da quel momento in poi per la donna e la sua famiglia inizia un periodo complicato.

A sentire il suo racconto, la latitanza della medicina territoriale avrebbe accresciuto lo stato d’ansia per le sorti degli anziani genitori. Nel giro di un paio di settimane, a qualunque ora del giorno e della notte, la signora, in quarantena senza sintomi e senza neppure aver fatto il tampone, chiama 5 volte il 118. A preoccupare sono soprattutto le condizioni del papà ultranovantenne allettato. Desatura e per questo cresce la preoccupazione ogni volta aumenta l’affanno.

Gli operatori del 118 – a Gravina ci sono solo due medici in servizio attualmente – forniscono assistenza medica e psicologica. Sì, perché in molti casi è proprio di questo che ha più bisogno chi è tenuto prigioniero nelle proprie abitazioni. Il medico curante ha allertato la Asl e fornito la terapia, ma essendo la coppia positiva al covid non va a domicilio. Il vero problema è che a casa della famiglia di Gravina non è andato nessun altro.

Il rovescio della medaglia di una singola storia come questa riguarda un’itera comunità. Ogni volta che il 118 viene allertato, infatti, il mezzo salvavita è sottratto al territorio. La stessa donna si sente in colpa – seppure non ha intravisto altre soluzioni – perché proprio il papà alcuni anni fa è stato salvato da un infarto acuto proprio dal medico del 118. Ai nostri microfoni esprime tutto il suo sconforto.

Non accusa nessuno, ma si pone le domande che si fanno in tanti nelle stesse condizioni. Non fosse arrivato il 118 dopo aver chiesto e non ottenuto assistenza che ne sarebbe stato dei miei genitori? Non mi fossi improvvista infermiera sarebbero ancora vivi? Sul caso abbiamo sentito il medico del 118 e sindacalista Francesco Papappicco.

LA NOTA DI PAPAPPICCO – “Si tratta di una questione di dignità – dice -. Ho denunciato e testimoniato tutto ciò che è accaduto dalla prima ondata a oggi. Credo fermamente nelle storie che parlano da sole, sia per mezzo di chi può urlarle sia per mezzo di chi impossibilitato a farlo per tanti motivi contingenti, lo fa grazie ad altri di buona volontà che hanno conservato ancora la virtù di non ‘partirsi dal bene’, ma di saper ‘entrare nel male’ come diceva un certo Niccolò. Sono storie di dignità vilipesa e dimenticata, ma anche di dignità rivendicata e difesa ad ogni costo.

Già cinque anni fa, quando in una affollata marcia solidale per Francesca Mangiatordi e me, il popolo murgiano avvertì l’esigenza di far quadrato contro chi aveva tentato di disciplinarci, in piazza ad Altamura, a fine corteo, parlai del valore più grande di una persona, di un popolo: la dignità. Da anarchico, cioè da persona libera, che non deve ‘dependere’ da alcuno, ma è capace di produrre pensiero autonomo, responsabile, scevro da dogmi e pregiudizi, pertanto capace di lottare non per la fama bensì per la verità, con buona pace dei tanti avversari, sarò sempre da quella parte, in direzione ostinata e contraria.

Alla stucchevole retorica di regime contrapporró sempre fatti, vicende e documenti. E anche quando questi, per un ghiribizzo della fortuna – che i ‘buon sotto e’ pie’ tiene’ mentre ‘l’improbi innalza’ – mi vedranno perdente, avrò coscienza di non esser stato contagiato dagli ‘esempli rei di quella corte’ e sconfitto, temendo ‘più assai rompere il giuramento che le leggi'”.