“Cara Bari, ti scrivo questa lettera, perché anche io ho bisogno di scrivere a qualcuno per Natale. E siccome a Babbo Natale ho smesso di credere da parecchio e Gesù Bambino è troppo piccolo per capirmi, scrivo a te”.

Inizia così la lettera intima e toccante che Cristiano Carriero, scrittore barese, ha dedicato alla città di Bari tramite un post pubblicato sul suo profilo Facebook lo scorso 4 dicembre.

Un dialogo immaginario con la città di Bari per raccontare lo stato d’animo di chi, emigrato in un’altra regione d’Italia ma con il cuore sempre in Puglia, per la prima volta nella vita non potrà tornare nella propria città per Natale.

“Per la prima volta nella mia vita, e 40 anni non sono pochi, non ci vedremo a Natale. Tu dirai ‘vabbè, che sarà mai, ci ritroviamo presto’, però ci tenevo a scriverti. Come atto intimo, seppur condiviso. Da quando non ho più i genitori, penso che la mia famiglia sia tu. In realtà l’ho sempre pensato: per quanto mi possa far piacere vedere parenti più o meno stretti, e amici che in realtà sono fratelli, a me basta camminare da solo, respirare il tuo vento, l’odore del tuo (mio) mare, vedere la luce dei lampioni del lungomare che si specchiano sulle acque placide, tra il teatro Margherita e il Chiringuito, e io sono in famiglia.

C’è qualcosa di incredibilmente forte che ci lega, e se qualcuno mi avesse chiesto di scegliere, in passato, tra una spiaggia di un isola caraibica o uno chalet di montagna per passare il Natale, io avrei comunque scelto te. Provando a spiegare a chi non ti conosce perché il 24 dicembre, a Bari, è sempre estate. È un fenomeno metereologico che non riesco a comprendere, però è così.

Quando ero piccolo mia madre mi diceva di non tornare a pranzo, il giorno della vigilia. Di mangiare un pezzo di focaccia in centro e fare ritorno a casa direttamente la sera, perché lei e papà dovevano preparare il cenone. Noi ragazzi l’abbiamo fatta diventare una tradizione che si è evoluta nel tempo, e abbiamo riempito il centro di gioia, di festa, di vita. Di entusiasmo da ritorno. Perché noi andiamo, ma poi torniamo. Sempre. O quasi. ‘Scendiamo’ perché dalle nostra parti si dice così, come se fosse una conseguenza naturale: a salire si fa fatica, scendere è una questione di inerzia. Viene da sé.

Durasse anche 20 ore, come l’anno scorso. Mica ci arrivi stanco, c’è qualcosa – una gioia dentro il cuore, quella di sapere che tu puoi fare tutte le esperienze fighissime del mondo, ma c’è un posto e solo uno che si chiama casa e non si sposta da là – che giustifica tutto.
Quest’anno non riesco, Bari. Avrebbe poco senso. Non c’è nessuno ad aspettarmi, la vigilia non sarà vigilia, e io non amo prendermi gioco dei divieti. Lo so che forse basterà far finta di fare shopping e comprare regali in centro il 24, ma non mi va. E per respirarti ancora, e sentirmi a casa mia, in famiglia, avrò tempo.

Mi sarebbe piaciuto, perché vivo questa strana e spero momentanea condizione di non essere né padre né figlio, correre da te che mi hai sempre capito. Anche in quel Natale del 1998, quando mio padre decise di farla finita, tre giorni prima della festa. Tu ci sei stata.
E non ti nego che se fosse stato tre anni fa, quando sapevo con certezza – ed è una certezza che ti logora – che quello sarebbe stato l’ultimo Natale con mia madre, lo avrei fatto fregandomene di tutto. Ma così no. Ci sarà modo per riabbracciarci.

Per il 2021 ho tanti desideri, più o meno dichiarati. E uno sei tu. Ci vedremo molto più spesso. Stammi bene e mandami uno dei tuoi scatti ogni tanto. Uno di quelli che lasciano senza fiato”.