Mentre la maggior parte degli italiani freme in attesa che sia decretata la fine del lockdown, che guarda spasmodicamente alla riapertura delle attività economiche e soprattutto alla fine della restrizione domiciliare fra le comodità delle mura domestiche, c’è chi, invece non vede semplicemente l’ora di poter tornare a rivedere i propri cari sotto lo sguardo vigile di una guardia, di poter tornare a parlare col proprio legale, di poter tornare a sperare in un permesso premio.

Sono i detenuti, ristretti all’interno delle carceri che scoppiano. Il coronavirus ha esasperato una condizione già di per sé difficile, per cui l’Italia è anche stata più volte bacchettata dalle istituzioni europee. Tutti ricordano la rivolta scoppiata all’inizio dell’emergenza sanitaria globale, ma se molti credevano che dopo allora le cose fossero migliorate, evidentemente non è così.

All’Avvocato Leopoldo Di Nanna, vicepresidente dell’Associazione #RecidivaZero da sempre impegnato nella tutela dei diritti costituzionalmente garantiti ai detenuti, è arrivata una lunga lettera scritta dalle detenute di un carcere del meridione. Lungi dall’autoassolversi, chiedono un provvedimento per evitare che il coronavirus si trasformi per loro una pena capitale.

Siamo una rappresentanza delle detenute, sezione Comuni, di una casa circondariale del sud Italia, il termine “detenuta” si addice appieno al contesto storico sociale che l’Italia sta attraversando per l’allarme pandemia del covid-19. Dal latino trattenere, allontanare, è questo il significato del verbo detenere ed è ciò che si è applicato ad litteram con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n.18, cosi detto Cura Italia a tutta la popolazione detenuta.

Con la sospensione delle attività rieducative e con il blocco dei colloqui visivi, non più una parola di conforto di un familiare, non più una rassicurazione del difensore di fiducia, nessuna udienza che desti speranza, perché è da essa che un detenuto trova gli stimoli per andare avanti nel percorso riabilitativo rappresentato dalla finalità rieducativa della pena.

Con questa missiva non vogliamo esimerci dalle nostre responsabilità, in quanto siamo consapevoli dei reati ascrittici e delle sanzioni inflitteci dalla Giustizia italiana. Il nostro pensiero, condiviso dalla gran parte della popolazione detenuta, è avvalorato e sostenuto da chi come noi ha contezza di quanto accade nella società. C’è tutto un mondo sottostante alla situazione carceraria di cui ben pochi sono a conoscenza, una realtà che deve essere palesata per sensibilizzare l’opinione pubblica e la coscienza dello Stato.

Il carcere è lo Stato, ed è ovvio che rispecchi in toto le carenze del nostro Paese. Si cade in una contraddizione di fatto nel sostenere che, per evitare la contrazione del virus covid-19, bisogna mantenere una distanza di sicurezza e poi, in concreto, pernottiamo, mangiamo, viviamo e sogniamo in pochi metri. Non è fattibile un discorso di profilassi in un ambiente così ristretto e angusto.

Lo Stato deve comprendere che quanto è in atto non ha a che vedere con la privazione della libertà personale, ma la contrazione del coronavirus può essere commisurata a una condanna capitale. A parere nostro, non si ha bisogno di manifestazioni plateali per supportare i nostri principi, ciò che chiediamo è una giusta intesa tra il Carcere e lo Stato. Né colpevolisti, né garantisti, bensì interventisti.

Occorre un provvedimento equo e proporzionato per l’emergenza sovraffollamento. È opinione comune che tale provvedimento è da individuarsi nella concessione di un indulto. È lapalissiano credere che tutti possano varcare le soglie di questi cancelli, ma in tal modo verrebbe rideterminato il numero della popolazione carceraria. Si tenga anche conto della mole di lavoro di cui verrà investita l’Autorità Giudiziaria successivamente alla sospensione dei termini di Legge.

Le così dette Patrie Galere, e nell’attributo “patrie” ribadiamo il nostro senso civico e l’orgoglio patriottico, pullulano di un’umanità palpabile, e i meccanismi intrapsichici che si sviluppano in merito al dramma psicosociale sono inevitabili conseguenze generate dal sentimento di paura di ognuna di noi. I dati enunciati nel discorso del Garante dei detenuti proprio in questi giorni, 20 detenuti e 200 operatori affetti da coronavirus, sono chiarificatori dell’immane proporzione del dramma e del disagio sociale.

L’Italia è per antonomasia la culla della fondatrice del diritto romano a cui molte nazioni si sono ispirate. A prescindere dai retaggi storici e dalle rimembranze poetiche, l’intransigenza di cui lo Stato fa bandiera, non deve essere uno scudo per proteggersi dalle proprie responsabilità, né un’arma per ferire una moltitudine di individui già ampiamente segnata dalle vicissitudini della vita.

Siamo stati lasciati soli, relegati ai margini di una società per la quale noi siamo dei reietti, ma c’è un cuore, un’anima, un vissuto dietro quei titoli in esecuzione, oltre il Casellario Giudiziale, c’è una casa, intesa come la domus romana, il focolare domestico.

Senza nulla togliere alla certezza della pena, senza discerne “a quo”, trascendendo dalla meritocrazia e dal “fine pena”, l’indulto consentirebbe di vivere dignitosamente il regime carcerario. La “libertas” del Governo sta nell’emanare l’indulto al di là delle logiche partitiche e della propaganda elettorale. Uno dei principi del Vangelo recita: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Allora, a voi l’ardua sentenza.