L’ultima vittima barese del “male estremo” è un 31enne. Ha scelto di farla finita alcuni giorni fa. Poco prima di lui avevano lasciato tutti senza parole il calciatore 19enne, il ristoriatore di Monopoli, la 14enne barese che ha deciso di farla finita gettandosi da un palazzo vicino alla sua scuola. Poi ci sono quelle richieste d’aiuto silenziose che vengono colte da chi ti è accanto com’è successo alla 13enne barese salvata dalle amiche mentre sfidava la maledetta Blue Whale.

Al di là di quanto scritto nei codici deontologici, è sempre aperto il dibattito sulla opportunità di diffondere tali notizie ed eventualmente in che modo farlo. Siamo stati più volte criticati per aver informato sui gesti estremi, pur non dando dettagli di nessun genere. Più politicamente corretto è ritenuto ciurlare nel manico, inerpicarsi in piste aperte e indagini in corso pur di non perdere occasione di pubblicare la notizia.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima ogni anno circa 880mila suicidi nel mondo. Nel 2020, poi, la depressione sarà il male più diffuso. Una cifra altissima, un numero asettico, che però nasconde agli occhi storie di vite spezzate per scelta personale. Per loro, secondo alcuni esperti, si potrebbe fare di più e soprattutto si potrebbe arrivare prima che sia troppo tardi. Le morti, sostengono, potrebbero diminuire grazie ad un nuovo approccio multidisciplinare, capace di garantire una connessione efficace ed empatica tra medico e paziente.

Secondo i più recenti dati Istat che si riferiscono agli anni 2011-2013, i suicidi in Italia sono stati 1.2877, solo nel 13% di questi casi, però, era stata diagnosticata nel paziente una malattia mentale, quale depressione maggiore, depressione minore e disturbo bipolare, al contrario dei restanti 10.430 casi, in cui non era stata riscontrato alcun disagio. Il dubbio sul quale ora si interrogano gli esperti riguarda pertanto la necessità di definire se, questi dati (ormai troppo vecchi), siano frutto di una mancata diagnosi o di una sottostima dei disturbi mentali e delle relative conseguenze.

“Il suicidio – secondo Cosimo Argentieri, direttore sanitario di Neomesia che opera nel settore della psichiatria – oltre ad essere conseguenza degli stati depressivi maggiori, è anche il risultato di una complessa interazione di fattori psicologici, biologici e sociali. Rappresenta uno stato della mente in cui il soggetto perde gli abituali punti di riferimento, si sente angosciato, frustrato, senza aspettative nel futuro. Occorre pertanto una presa in carico multidisciplinare per rispondere alle esigenze clinico-terapeutiche del paziente”.

Non basta mantenere la calma ed ascoltare empaticamente il paziente, per gli esperti il medico deve quindi formulare alcune semplici domande dirette, utili alla valutazione del rischio: “Ti senti triste?”, “Senti che nessuno si prende cura di te?”, “Pensi che non valga la pena di vivere?”, “Pensi che vorresti morire?”, “Ti è capito di fare piani per porre fine alla tua vita?”.

Anche per il caregiver sia esso un genitore, un familiare, un amico o conoscente, esistono delle raccomandazioni che permettono di instaurare e mantenere un rapporto con la persona affetta da depressione e, in alcuni casi, individuare campanelli d’allarme che possono indicare tendenze suicide. Secondo gli esperti il caregiver deve ascoltare attentamente e con calma, cercare di comprendere i sentimenti dell’altro con empatia, emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto, esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi parlargli onestamente e con semplicità.

“In molte occasioni – sostiene Maurizio Pompili, professore di psichiatria, direttore della scuola di specializzazione in psichiatria all’Università La Sapienza di Roma – non si chiede nulla sul suicidio e troppo spesso si assume erroneamente che indagare più profondamente sul tema del suicidio nel rapporto con il paziente possa consistere in un maggior rischio per l’individuo. Una prima indagine sui fattori di rischio e sull’intenzione di suicidio, invece, può già condurre a determinare l’entità del rischio come basso, medio, alto”.

Siamo dell’idea che nascondere la testa sotto la sabbia, per paura di non urtare i sentimenti delle persone coinvolte, serva solo a rendere ancora più inutile una morte, di per sé già drammatica. Non è necessario fare per forza nomi e cognomi, avventurarsi nell’analisi di pettegolezzi e voci di corridoio, passare al setaccio la vita di chi se n’è andato per scelta, ma è fondamentale mantenere accesi i riflettori su un problema sociale, per cercare di capirlo e tentare di evitare in ogni modo il suo proliferare.