Da quando la sanità penitenziaria, col DPCM del 2008, è passata dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, ci sono stati cambiamenti importanti. Uno di questi è destinato sicuramente a far discutere. Riguarderebbe una indennità economica (L. 436/87), percepita fino al 2008 da tutti i lavoratori delle carceri per eventuali rischi legati all’ambiente.

Attualmente, questa indennità pare non sia più riconosciuta al settore sanitario. Un compenso che, per infermieri, tecnici e medici penitenziari, non rappresenta solo una semplice copertura da possibili danni, ma sarebbe l’espressione di un riconoscimento anche di tipo morale. Il 18 marzo scorso a Trani, alcuni rappresentanti dell’ambito sanitario carcerario pugliese si sono incontrati per dare vita al movimento di protesta “Infermieri Penitenziari”, per quella che ritengono essere l’ennesima ingiustizia compiuta a loro discapito.

“Tempo fa – sostengono gli esponenti del movimento – quando gli Istituti di pena dipendevano dal Ministero della Giustizia, l’assistenza infermieristica era erogata dagli stessi agenti di custodia, senza alcun titolo abilitante. Un fatto che deve far riflettere. Finalmente, dopo anni e anni di discussione, prima con il Decreto Bindi del ’98 e poi con il DPCM del 2008, si è stabilito che la gestione della salute dei detenuti doveva essere prerogativa del Ministero della Sanità. Ciò avrebbe comportato miglioramenti per operatori, sanitari e detenuti. In effetti per questi ultimi le ricadute positive ci sono state. Per noi, invece, solo aspettative tradite”.

“Lavorare in un carcere non è facile – affermano i lavoratori -. Una volta entrati nella struttura siamo perquisiti a campione col metal detector. Poi c’è la consegna del cellulare e degli effetti personali. C’è l’angosciante chiusura dell’enorme cancello alle spalle. Senza parlare delle sbarre alle finestre. Questo per sei ore al giorno, tutti i giorni. Il burnout è dietro l’angolo e i casi di suicidio tra noi sono in ascesa”.

“La qualità della nostra vita lavorativa, rispetto ai colleghi che operano nelle strutture sanitarie pubbliche – fanno notare – è decisamente degradante. Senza parlare dei rischi legati al contagio di malattie infettive o all’incolumità personale. I tentativi di aggressione, che il più delle volte diventano aggressioni vere e proprie, non si contano più. Con l’aggravante, poi, che il detenuto è sempre sotto i nostri occhi. Mentre l’eventuale assalitore di un pronto soccorso o di un qualsiasi altro reparto, una volta guarito, va via”.

“Tantissimi colleghi – osservano amaramente – per questi e altri motivi, non avendo più la forza di lottare e per non subire altre frustrazioni, hanno preferito abbandonare il carcere per lavorare negli ambulatori. Questo ha portato a perdere molte unità lavorative e, soprattutto, a perdere preziose abilità all’interno degli staff carcerari. Di fatto, siamo sempre in emergenza organico”.

“L’indennità mancata è per noi un mancato riconoscimento delle nostre difficoltà e del nostro lavoro. Tutto questo – aggiungono – ci fa sentire lavoratori di serie “B”. Anche perché abbiamo scoperto che ci sono professionalità del nostro stesso ambito, come il responsabile dell’intera area sanitaria carceraria (ex medico “incaricato”), che pur lavorando da noi solo tre ore al giorno, non ha mai perso l’indennità. Stessa cosa per tutti gli altri dipendenti ancora legati contrattualmente al Ministero della Giustizia: dal ragioniere, agli insegnanti, al cappellano”.

“Per questo abbiamo pensato di costituirci in un movimento – evidenziano – con l’intenzione di attivarci a livello nazionale. Presto chiederemo al Governatore Emiliano di riceverci in delegazione per affrontare e possibilmente risolvere le problematiche su cui non vogliamo che cali il silenzio”.

“Interpelleremo anche le OOSS nazionali più rappresentative – concludono – perché al più presto venga ripristinato un giusto principio di uguaglianza tra i lavoratori. Faremo di tutto per far sentire la nostra voce e per questo ringraziamo apertamente il Quotidiano Italiano che per primo ci ha dato la possibilità di farlo. Certamente non ci fermeremo. Ne va della nostra dignità e della nostra vita.