“In 30 anni di inchieste di mafia sono stata minacciata, querelata, pedinata, mi sono state puntate le armi, ma mai nessuno mi aveva aggredito dandomi un cazzotto. Mai. Qualcosa significa”. A scrivere su Liberainformazione è Maria Grazia Mazzola, l’inviata del Tg1 alla quale Monica Laera, moglie del boss Lorenzo Caldarola, ha dato una sberla il 19 febbraio scorso al quartiere Libertà di Bari.

Cara Maria Grazia, sono più giovane di te, ma faccio questo maledetto mestiere da abbastanza tempo per darti del tu e permettermi di rispondere alla tua affermazione. Qualcosa significa. Sì, vuol dire che quel giorno in quella strada non saresti dovuta andare, come consigliatoti dagli esperti baresi che ti accompagnavano. Non perché non bisogna andare a porre domande scomode a chi potrebbe picchiarti, ma per una semplice questione di rispetto umano. La famiglia stava piangendo un morto e non importa quale famiglia fosse, a maggior ragione perché le domande che avresti posto non erano di strettissima attualità.

Prima di scriverti questa riflessione mi sono andato a leggere e rileggere il tuo curriculum e davvero non riesco ancora a capacitarmi del perché abbia scelto di andare a “sfottere” il clan quel giorno. In quella lettera hai scritto anche che il tuo ceffone sarebbe stato un avvertimento a tutti i giornalisti. “Qui i giornalisti non devono venire – hai detto -. Qui nessuno deve fare domande. Una lezione per mettere a tacere una giornalista dell’altro Stato. Quello che si riconosce nella Costituzione italiana. Eravamo su una strada pubblica con molte persone presenti”.

Hai cavalcato l’onda, ma forse ti sei lasciata prendere la mano. Parla per te, perché forse non hai valutato l’ipotesi che tanti di noi colleghi quel giorno non sarebbero andati a porre domande banali. Attenta, però, non dico in generale, ma in quel preciso giorno. Non so quanto guadagni da inviata del Tg1, non è quello che fa il giornalista, ma forse hai dimenticato cosa voglia dire vivere per strada. Non su mille strade diverse al giorno, da dove vai via con la telecamera nascosta e magari non torni, ma in quell’unica strada che racconti tutti i sacrosanti giorni, provando in tutti i modi a cambiarlo quel maledetto pezzo di città. La mia città, non la tua.

Vorremmo tanto cambiarla da metterci contro persino certi simboli distorti di rettitudine e buon esempio, in alcuno casi più pericolosi degli stessi clan. Su una cosa sono d’accordo con te. “C’è una innegabile emergenza di tutela che riguarda il diritto-dovere di informare ed essere informati in Italia. L’aumento di colleghi aggrediti, minacciati e addirittura scortati dimostra che siamo entrati da tempo in una zona rossa”. Siamo minacciati, è vero. Il guaio è che lo siamo anche da chi sceglie di fare la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Posti sbagliati, invece, non ce ne sono.

Sai, quelli come me sono iscritti alla gestione separata e non possono permettersi la Casagit, ma non per questo evitano di mettere a repentaglio tutti i giorni la propria incolumità, non solo rischiando di prendere schiaffi (ne ho presi anche io tanti e non sempre con una telecamera nascosta), ma anche rimediando querele dai colletti bianchi.

Proprio ieri, Piervincenzi, quello al quale Spada ha dato la testata sul naso, è andato a caccia della signora Laera. Non so se ha provato a sapere le ragioni del tuo schiaffo o se ha voluto capire le dinamiche di quel clan. Non so neppure se anche lui è stato aggredito. Ciò che mi preoccupa è mischiare la rincorsa allo scoop fuori stagione, che pure fa parte del circo dell’informazione, con il diritto all’informazione. E te lo dice uno che viaggia tutti i giorni sul filo del rasoio. In ogni caso un’aggressione resta un’aggressione e per questo un gesto deprecabile. Ti auguro una pronta guarigione, soprattutto perché ho saputo degli altri 25 giorni di prognosi. Guarisci presto, ma parla per te.