Il 13 gennaio 2014 nel comitato locale di Parabiago, in provincia di Milano, si tiene un’assemblea del comitato di Legnano che ben spiega – per così dire – cos’è la privatizzazione della Croce Rossa. Le regole, infatti, sono ancora voci e cambiano di giorno in giorno. Sono presenti dodici dei 15 capisquadra. Dal primo gennaio, viene spiegato, il comitato locale diventa Associazione di promozione sociale (privata), con un proprio codice fiscale e una propria partita iva.

Sul conto corrente dell’associazione privata ci sono 17.211 euro. Da dove provengono se l’associazione è appena nata? Sono i soldi delle donazioni del periodo natalizio fatte alla Croce Rossa proprio alla vigilia della privatizzazione. In realtà all’appello mancano 2.000 euro, ma quelli sono destinati alla Croce Rossa pubblica, che nella fase di transizione non ancora esaurita ha deciso di prelevare dai conti dei comitati locali, una buona fetta di ciò che contiene. Tutto ciò in un momento in cui la scissione tra Ente e Associazione raggiunge l’apice: i servizi svolti in quel periodo dai comitati locali che sono appena stati fatturati, o in attesa di esserlo, finiscono nel conto riconducibile ai vecchi dati fiscali, ossia nel calderone del conto dell’Ente Pubblico.

Dei soldi prelevati, come si legge dal verbale, non è dato sapere se e quando verranno restituiti. In ogni caso il vecchio conto, su cui giace buona parte delle sostanze, è gestito dal Direttore Regionale, nominato a riguardo commissario ad acta dal Comitato Centrale. La fase stralcio. Certo è che i donatori immaginavano che quanto regalato nel periodo natalizio fosse destinato ad altro, non certo a rimpinguare le casse di un’associazione privata che, al contrario di qualunque altra, ha le spalle coperte e la possibilità di contare sull’immagine, i soldi, le sedi e i mezzi della Croce Rossa.

“Essere diventati privati – è scritto nel verbale – significa avere delle agevolazioni (per esempio 3 preventivi, fornitori nazionali). L’APS diventa datore di lavoro e il responsabile risponde in solido. Non avremo più l’avvocatura dello Stato che ci difende, ma dovremo avere avvocati propri”. Gli altri vantaggi – abbiamo scoperto in questi mesi – sono quelli di poter fare a meno dei dipendenti pubblici – nonostante l’esperienza ultradecennale come soccorritori messi a tagliare bigliettini negli uffici comunali – e assumere invece amici e parenti.

In alcuni casi addirittura creando spreco di denaro e l’assurdità di pagare centinaia di dipendenti pubblici in tutta Italia per girarsi i pollici o impegnati in attività figurative, utili all’apparenza, ma che in realtà non lo sono e producono solo costi aggiuntivi. Questi professionisti potrebbero essere impiegati sul campo e generare utili di natura sociale ed economica per la Croce Rossa e l’intera comunità. Nel verbale di cui siamo entrati in possesso è anche scritto che è fatto divieto di utilizzare personale di ruolo per fare reddito al comitato locale. “Può essere usato solo per compiti istituzionali, attualmente solo centralino e qualsiasi altro servizio porti reddito”. Probabilmente una svista la mancanza del “non”.

Il divieto dell’Ente pubblico – una volta creata la CRI privata – di essere parte di convenzioni e/o contratti remunerati è stato da subito ribadito dal presidente regionale della Lombardia, Maurizio Gussoni. Da questo impedimento la necessità di creare la figura del soccorritore di prossimità. Un modo di impiegare soccorritori professionali in assenza di ambulanze (cedute gratuitamente alle CRI private). Peccato, però, che quando c’è stato bisogno di ambulanze aggiuntive per AREU, sia stato chiesto al personale di ruolo di ritornare sulle ambulanze. E così, per due mesi, il personale dell’Ente pubblico ha lavorato nei Comitati Locali privati di Garbagnate Milanese e di Bresso.

Questo mese di giugno, poi, a causa dell’emergenza migranti a Milano (per molti benedetta), AREU ha chiesto un presidio sanitario presso la stazione centrale. La CRI privata ha quindi parcheggiato un rimorchio adibito ad ambulatorio mobile (che era di proprietà dello Stato), nel quale un medico della ASL effettua controlli sanitari. A completare il servizio viene predisposta la presenza di un’ambulanza per il trasporto in ospedale, se necessario. Il servizio viene preso in carico (in che modo?) dalla CRI privata, ma la CRI privata non è strutturata per questo. E quindi, in attesa (“solo per pochi giorni”, viene detto) che l’organizzazione privata assuma personale, i dipendenti dell’Ente pubblico tornano su quelle ambulanze che avrebbero dovuto scordarsi.

Per il compito istituzionale di assistenza ai migranti presso il centro Nazionale della Croce Rossa a Bresso (struttura dell’Ente pubblico) è stato creato un campo di accoglienza, in funzione ormai da mesi. Il campo è gestito dalla CRI privata di Milano. La domanda è scontata: per quale motivo l’Ente pubblico, che ha la proprietà della struttura, le infrastrutture e decine di dipendenti già pagati, ha lasciato la gestione in mano a un’organizzazione privata, che ha dovuto assumere appositamente personale? Non è forse questo uno spreco di denaro pubblico?

La stessa cosa, poi, sta succedendo per il Cara di via Aquila. È stato dato in gestione alla Croce Rossa privata (In che modo? Con assegnazione diretta?), che dovrà assumere personale a fronte dei 150 dipendenti dell’Ente pubblico già pagati. Personale che potrebbe svolgere benissimo quell’incarico, ma che attualmente continua a passeggiare per Milano, fare fotocopie nei centri comunali o assistere i disabili senza averne alcun titolo.

Nel verbale dei capisquadra di Parabiago si legge che i mezzi rimangono all’ente, che li darà in comodato d’uso all’associazione privata, il cui obbligo è quello di rimborsare le spese assicurative. In comodato d’uso in altre parti d’Italia, dove il patrimonio immobiliare non è stato ancora venduto, vengono assegnate anche le sedi. Da quel 13 gennaio è passato un anno e mezzo, ma la privatizzazione della Croce Rossa è ancora un gran caos difeso a spada tratta dal presidente nazionale Francesco Rocca e da molti vertici regionali, pur di non ammettere l’inadeguatezza del decreto 178 del 2012, lo strumento che ha fatto precipitare il glorioso ente umanitario nel periodo più buio della sua lunga storia.