Ho sempre pensato di essere una ragazza fortunata perché la vita mi ha dato tanto, tutto: una bella famiglia, una splendida casa, un armadio pieno zeppo di vestiti e un letto matrimoniale in camera nonostante fossi single! Mi sono da sempre sentita una ragazza con una marcia in più, nonostante per molti altri fosse difficile tollerare il mio evidente egocentrismo. Alla fine, quel che è sempre contato è che, una volta tornata a casa, ero sempre la principessa di papà, la figlia ribelle ma intoccabile. Papà era lì, sempre, PER ME.

Ecco, forse è proprio questo il primo errore che commettiamo: dare per scontata la presenza di chi ci ama, dimenticarci dell’importanza, del valore aggiunto che costituisce nella nostra vita.
A tavola, una domenica qualunque, mi rimprovera: “Hai sempre la testa tra le nuvole, quel cellulare in mano. Ascoltami quando parlo Gaia! Domani farò un intervento di routine, mancherò un paio di giorni, non far disperare tua madre e tuo fratello.” Sbuffando, annuisco.

La sera dopo, in attesa che si faccia l’ora per poter far visita a papà dopo l’intervento, mi chiama mamma. Con voce tremante mi dice di non agitarmi e di raggiungerla in ospedale, papà ha avuto delle complicazioni durante l’intervento.
Ecco, avete presente quello che molti definiscono un brutto quarto d’ora? Io pensavo tutto sommato di sapere cosa volesse dire fino a quando non l’ho passato io quel brutto, bruttissimo quarto d’ora.
Arrivata in ospedale il dottore mi comunica che per un errore hanno reciso un’arteria a mio padre, che è vivo per miracolo ma che non potrò vederlo nei prossimi giorni perché in condizioni molto gravi. Ecco che all’improvviso la mia bellissima vita si ferma. Cosa sono? Cosa faccio? Cosa farò se? Da dove ricomincerò se? Su chi posso contare ora? Come si paga una bolletta? E se mia madre rimane vedova a 50 anni? Che cavolo sta succedendo? Come potrei gestire da sola l’ufficio di papà? Ditemi che tutto quello che ho sempre e solo sentito nei telegiornali non sta succedendo a me.
Cambiamo subito l’equipe di chirurghi nella speranza che si possa rimediare al danno subìto.

Una lunga settimana: papà subisce altri due interventi complicati. L’esito è positivo per entrambi ma i medici non si esprimono: “La prognosi è riservata, il paziente non è ancora fuori pericolo”. Papà trascorre due settimane in rianimazione, in lotta tra la vita e la morte. La nostra serenità familiare strappata via per un intervento di routine.
Non posso andare a lavorare, ho il pianto facile, l’esaurimento è vicino. Mai successo prima: sono costretta ad aiutare mamma nel mettere a posto casa, io che non ho mai mosso un dito se non per sistemare i vestiti appena comprati nell’armadio.
In quei giorni capisco l’effettiva importanza delle persone che ci amano, quelle che siamo realmente destinati a non perdere mai; coloro le quali si preoccupano del tuo umore, dei tuoi sorrisi e dei tuoi pianti isterici.

Dopo 13 giorni papà è finalmente sveglio e chiede di me. Entro in rianimazione: eccolo lì, come un bimbo, stordito, mi guarda, gli sorridono gli occhi, una lacrimuccia scende sulla guancia, mi stringe la mano mentre con l’altra fa cenno di avvicinarmi a lui e nell’orecchio mi dice: “Quanti giorni o mesi sono passati? Sei dimagrita ancora di più, così non va bene.” Si volta, chiama la dottoressa di turno, la guarda e le dice con voce rassegnata ed allo stesso tempo agguerrita: “Quando si sposerà? È stata la prima cosa che ho pensato da quando mi sono svegliato. Chissà quando si sposerà la mia terribile principessa.”
Realizzi così che certe cose non cambiano mai, dopo 13 giorni di morfina, valium e sedativi vari, l’unico vero amore della tua vita si sveglia e la prima cosa che fa è volerti appioppare a tutti i costi una zavorra: un fidanzato.
Io un fidanzato non lo voglio! Dunque, riprendiamo dall’ultima volta: litighiamo.
Bentornato papà!