Il senatore Aldo Di Biagio, di Area Popolare, è stato uno dei primi a sollevare dubbi sulla gestione della Croce Rossa Italiana portata avanti dal presidente Rocca e a chiedere spiegazioni sull’affaire della privatizzazione dell’ente. Alla luce delle rivelazioni fatte nella nostra inchiesta giornalistica, abbiamo ritenuto confrontarci con il Senatore, ponendogli qualche domanda sulla questione C.R.I. alla luce della sua esperienza parlamentare.

Ormai la situazione è letteralmente fuori controllo. I comitati commissariati sono 163, ritiene sia arrivato il momento di destituire Rocca dall’incarico di Presidente in attesa di capire quali potranno essere le sorti dell’ente?

Date le premesse, sarebbe auspicabile che l’affaire Cri approdi definitivamente sul tavolo del Governo alla luce delle recenti derive denunciate anche dai miei atti parlamentari, che hanno aggravato il quadro già complesso della Cri post privatizzazione.
A ciò si aggiunge anche il fatto che il “One man show” presidenziale a cui stiamo assistendo da qualche tempo è di discutibile legittimità e rischia di compromettere la funzionalità, le potenzialità e le competenze non solo della gestione dei comitati locali, che sono gli avamposti operativi della Cri sul territorio e che sono i primi ad essere sacrificati sull’altare della riforma.
Appare ovvio che se poi dovessero essere confermate determinate mancanze, violazioni o comportamenti illeciti un eventuale commissariamento non sarebbe da escludere.

Lei è sempre stato uno dei più critici rispetto a questa operazione. Perché?

Fin dalle prime battute ho ritenuto fosse sbagliata la riforma, non solo nella sostanza ma anche nella forma e nel metodo.
Lo schema di decreto venne presentato in parlamento “monco” sotto il profilo normativo e organizzativo ed era chiaro a tutti che fosse più una toppa legislativa per far fronte a un’emergenza, che un vero e proprio progetto riorganizzativo di lungo periodo.
Non si tennero in considerazione i pareri delle commissioni parlamentari chiamate ad esprimersi in materia soprattutto con riguardo all’eccesso di delega, considerando che invece di operare per la riorganizzazione dell’ente pubblico si è proceduto alla trasformazione della natura giuridica dell’ente che diventerà completamente privato, con palese violazione del principio di omogeneità, essendo non manifestamente infondata anche la questione dicostituzionalità dello stesso decreto.
Al di là degli elementi procedurali, la riforma non ha tenuto conto delle perplessità e delle evidenze sollevate nel parere delle Commissioni, segnatamente in merito ai rischi connessi al riordino complessivo della Croce Rossa, e ai connessi pesanti interventi «strutturali» con inevitabili effetti negativi soprattutto dal punto di vista occupazionale e organizzativo delle risorse umane, e l’attualità sta rivelando come quelle evidenze erano tristemente fondate.
Su questa consapevolezza si colloca il ddl da me presentato lo scorso giugno, insieme ad altri colleghi, che abrogando il vecchio decreto legislativo 178, individua nuovi principi ispiratori per una nuova delega al Governo in materia. Purtroppo a un anno di distanza dalla sua presentazione al Senato, l’iter del provvedimento non è mai partito.

Quali vantaggi concreti porterà la “privatizzazione” della C.R.I. e la conseguente scomparsa dell’Ente Pubblico in termini occupazionali e di servizi?

Un progetto di privatizzazione dovrebbe massimizzare le potenzialità di una struttura in ragione dell’adattamento delle dinamiche di questa a quelle del mercato ma, senza entrare nel merito della questione, è privo di senso il fatto che questa “conversione” la si voglia fare su un ente umanitario operante nel sociale e sul versante assistenziale, segnatamente in quei comparti dove lo Stato è assente. Pertanto non mi risulta che vi siano particolari vantaggi risultanti da questa operazione.

Pare proprio che la privatizzazione stia portando più danni che benefici. È possibile che non sia questa la strada giusta per il rilancio dell’ente?

Non ho mai avuto una posizione aprioristicamente critica verso un progetto di riforma della Cri, purché fatta seguendo i crismi di innovazione, ottimizzazione e massimizzazione delle potenzialità, ma se questa si tramuta in una gestione approssimativa e raffazzonata, dove centinaia di comitati vengono commissariati, centinaia di lavoratori vengono lasciati all’uscio e i militari, in parte congedati e in parte ridotti allo status civile, e dove, tra le altre cose, di tanto in tanto intervengono rettifiche normative che mirano a colmare i vuoti lasciati dalla riforma originaria, mi viene qualche dubbio circa la “bontà” del percorso intrapreso.

Ci sono delle situazioni paradossali, in cui la Croce Rossa, anche in virtù della privatizzazione, viene trattata come un affare di famiglia.

Ciò che abbiamo riscontrato in alcune regioni è l’esempio l’ampante di quanto le istituzioni non possano più permettersi di chiudere gli occhi. Sicuramente sarebbe il caso di avviare un’inchiesta o un approfondimento da parte delle istituzioni competenti. Per quanto mi riguarda, ho formulato la richiesta alla Commissione Igiene e Sanità del Senato di avviare un’indagine conoscitiva sulla Cri e certamente quella potrebbe essere una sede interessante per fare luce su quelle mala gestio che sono assolutamente da sradicare sia a livello territoriale che centrale.

Può far scalpore la svendita di un patrimonio immobiliare di pregio e con connotazioni storiche molto particolari allo scopo di far cassa, ma alla fine di questo processo cosiddetto di riforma che fine farà l’imponente parco attrezzature che Croce Rossa vanta? Si parla di camion, case refabbricate, impianti elettrici, potabilizzatori, sale operatorie campali, ospedali attendati da milioni di euro. È giusto buttare nella pattumiera un patrimonio utilissimo e già pagato dai contribuenti?

Il concetto del “buttare nella pattumiera” potrebbe essere la sintesi più opportuna per spiegare non solo la gestione dei beni mobili e immobili della Cri ma la sorte dell’ente stesso. Dopo anni di lavoro, di “onorata carriera”, di riconoscimenti nazionali e internazionali, si è deciso di mandare in macerie un patrimonio di expertise e professionalità. Ma al di là di questa legittima divagazione, questo resta uno degli aspetti più controversi dell’intera vicenda: non è dato a noi sapere a quanto ammonta l’intero patrimonio della CRI, quali sono gli attuali progetti di alienazione e cosa è stato dismesso finora.
Sappiamo solo che esistono vaste zone d’ombra sulle procedure finora avviate e sull’ammontare degli introiti incamerati dall’ente a seguito di queste.
Alcune opacità esistono da ben prima dell’avvio delprocesso di privatizzazione che, con la sua attuazione, ha complicato soltanto un scenario difficile da inquadrare.
Si tenga conto che molti presidenti di comitati locali hanno osato chiedere lumi sull’argomento e la risposta è stata il commissariamento, ufficialmente motivato da altre (e discutibili) presunte responsabilità.
A tal proposito ho formulato richiesta di pubblicità degli atti alla commissione Igiene e Sanità del Senato, segnatamente per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare.

I servizi attualmente erogati dalla C.R.I. (Pronto Soccorso, Trasporto Infermi, assistenza ai disabili e ai migranti, interventi nelle grandi catastrofi, etc.) attraverso l’utilizzo dal personale dipendente (che sappiamo altamente professionalizzato), dopo l’attuazione del Decreto 178/2, subiranno uno scadimento o saranno mantenuti gli stessi livelli qualitativi di assistenza?

In ragione della privatizzazione e dell’assenza del supporto statale, la CRI diventerà una società privata a fini di lucro che dovrà essere in grado di competere con altre realtà operanti nel medesimo settore, quindi – per vincere appalti – dovrà offrire servizi a costi competitivi utilizzando meno personale, il cui stipendio – tra le altre cose – nel passaggio dal pubblico al privato subirà un importante ridimensionamento. Aspetti che non possono che influenzare negativamente la qualità dei servizi offerti. Un esempio alquanto esaustivo può essere offerto dalla vicenda del Cem sulle cui sorti ho depositato anche un atto parlamentare. Il Cem di Roma gestito dalla Cri e finanziato dalla Regione Lazio ha già licenziato 25 persone e per questa ragione le potenzialità sono notevolmente ridotte ( ricordiamo che rappresentava un centro di eccellenza per la riabilitazione dei disabili).

Si parla sempre e solo dei dipendenti e dei volontari ma la Croce Rossa Italiana ha nelle sue file quasi quarantamila cittadini in uniforme, tra crocerossine e militari. Quale sarà secondo lei il loro destino?

Se ci dovessimo basare esclusivamente sull’attuazione del 178, il contingente militare dovrà essere composto esclusivamente da 300 militari, pertanto una parte dei restanti dovrebbe continuare a operare con lo status civile, mentre gli esuberi dovrebbero attestarsi intorno alle mille unità. Lo scenario oltre ad essere vergognoso è anche paradossale non sussistendo precedenti nella storia del nostro Paese di smilitarizzazione di un corpo onorevole e valido.

Dopo l’approvazione del Decreto 178/12 e la recente approvazione dell’emendamento che allinea il percorso dei Lavoratori della C.R.I. a quello dei Dipendenti delle Provincie, quali sono le garanzie occupazionali dei Lavoratori della C.R.I. (precari militari e civili e il personale di ruolo)?

Se in linea teorica si sventola come un successo il fatto che vi sarà integrazione dei lavoratori in esubero in altri uffici della PA, sotto il profilo pratico questa “ricollocazione” non ha modalità chiare e in alcuni casi significa trasferimenti, anche notevoli, che di fatto non possono essere sostenuti dai lavoratori. Per quanto riguarda il corpo militare si stanno verificano le più evidenti anomalie, in ragione della smilitarizzazione, che non ha precedenti equiparabili nel nostro ordinamento, il transito di una parte degli operatori allo status civile ed il conseguente licenziamento per gli altri.
A mio parere questa opacità occupazionale, di tanto in tanto illuminata con qualche rettifica normativa che però non attutisce l’effetto deleterio della riforma, rappresenta la più vergognosa pagina del piano riformatore della Cri.

La nascita di questo “nuovo grande progetto”, ha certamente coinciso con la condivisione di obiettivi e strategie da parte di tutti i soggetti interessati. Secondo Lei, e allo stato attuale, qual è la percentuale di gradimento e adesione al progetto da parte dei Soci e dei Lavoratori?

Il progetto originario, e in parte condiviso, nasceva dall’esigenza di porre rimedio al deficit strutturale e organizzativo della Cri, ma lo schema di decreto presentato alle camere nel 2012 (che sarebbe poi diventato il dlgs 178) ha completamente stravolto l’originario intento legittimando un vero e proprio “smantellamento”.
Ed è esattamente la consapevolezza di questo stravolgimento che ha innescato un malumore condiviso in buona parte delle strutture locali. Il fatto stesso che il comitato nazionale e i 19 presidi regionali della CRI abbiano sollecitato uno slittamento della privatizzazione nell’ultimo decreto Milleproroghe, dà la misura di quanto questo progetto, col tempo, abbia manifestato tutti i suoi limiti e la sua poco elevata percentuale di gradimento.

Senatore Di Biagio, come si spiega la piena e totale adesione al progetto di smantellamento dell’Ente Pubblico C.R.I., da parte di tutto l’arco parlamentare e, in particolar modo, da parte del Partito Democratico?

Non vi è mai stata una piena e totale adesione al progetto, anzi.
La posizione delle Camere è stata piuttosto critica fin dalle primissime battute. E anche in questa delicata fase del progetto l’atteggiamento resta controverso. Probabilmente non c’è stata quell’incisività che avrebbe consentito un intervento celere del Governo. Credo che i tempi siano maturi anche per rivedere l’approccio tiepido, ma consapevole, di una parte del parlamento.

Perché la questione non è ancora al centrodi una seria discussione del Consiglio dei Ministri? Le ombre su questa gestione sono tante ormai.

Le ragioni possono essere tante, l’unica certezza è che l’attenzione parlamentare sulle sorti della CRI è particolarmente alta, e questo ovviamente stride con l’attuale stato del procedimento di riordino dell’ente. Considerato anche il numero di atti parlamentari sottoposti oltre alla richiesta di un’informativa formulata al Governo su alcuni punti delicati del piano di riforma, ritengo che un intervento del Governo non possa escludersi nel breve periodo.

Dall’inchiesta giornalistica che stiamo conducendo emerge una getione disinvolta e verticistica di un ente pubblico radicato nel tessuto sociale nazionale. Altri enti pubblici con meno problemi sono già gestiti direttamente dal Governo. Cosa impedisce a Palazzo Chigi di accendere un faro e diradare questa nebbia?

Non esistono “impedimenti” ma “un’assenza di priorità” in capo al Governo, ma a tre anni dall’entrata in vigore del dlgs 178 e al conseguente disastroso bilancio, dinanzi al fiorire di contenziosi tra comitato nazionale e comitati locali, e in ragione di un malcontento generale e condiviso, ritengo che vi siano tutti i presupposti per rivedere la gestione manageriale dell’ente.