Il quinto ateneo pubblico che sarà portato a chiudere i battenti, non prima di ulteriori e drastici tagli ai servizi, alla didattica e alla ricerca, dopo quello di Foggia, Cassino, Napoli e Sassari, è proprio l’ateneo barese. Questo, attivo dal 1924, si presenta all’esame con un rapporto tra spesa per il personale e le entrate stabili pari all’84,6% su una soglia massima dell’80%. Stando a questo dato più di venti atenei italiani nel 2013 sono a rischio fallimento e il dato si ripercuote maggiormente sugli atenei delle regioni meridionali. Un nuovo piano quinquennale ridefinirà la mission degli atenei in difficoltà che dovranno evidentemente puntare non più sulla ricerca scientifica, ma sulla ricerca di fondi.  In tale direzione vanno le recenti abolizioni dei corsi di laurea e delle storiche facoltà assorbiti da  dipartimenti e Scuole che sottendono ad ampli accorpamenti. Si provvederà a vendere il patrimonio immobile che tra Ex Manifattura Tabacchi, Student Center di via Camillo Rosalba e altri immobili inutilizzati, ammonta a più di 35 milioni di euro. L’unico problema è che, vista la congiuntura economica non favorevole, più volte le aste sono andate deserte e il patrimonio invenduto.

Un altro espediente molto utilizzato in generale e in particolar modo nell’Università di Bari, assurta a simbolo di un malcostume, vede non assunti o non pagati i ricercatori vincitori di concorso. Malcostume successivamente legalizzato tramite la riforma Gelmini.

Oltre che sui ricercatori precari e sugli studenti, la mannaia cala anche sulla testa dei dottorati.  Dal bando di concorso per il XXVIII ciclo del dottorato si apprende della drastica riduzione dei posti che passa da un totale di 220 per lo scorso ciclo, all’irrisoria cifra di 129 posti da spalmarsi su tutte le Scuole di dottorato di quest’ultimo.

Non ci resta che chiederci per quanto tempo si potrà resistere e fino a quando, a questo punto, ad esistere?

Bruna Giorgio